venerdì, novembre 12, 2010

Sia lodato Gesù Cristo?

Questa è la storia di padre Athanase Seromba, sacerdote cattolico ruandese.

«Ogni mattina all’alba – racconteranno dieci anni dopo i suoi parrocchiani al Corriere, a Nyange vicino Kibuye, sul magnifico lago Kivu in Ruanda - scendeva nella sua chiesa, preparava i paramenti, li indossava in attesa dei fedeli per la messa. Distribuiva una parola buona per ciascuno, portava conforto alla sua gente oberata dalla fame e dalla povertà, non si lasciava sfuggire un’occasione per aiutare i più indigenti."



Un vero sant'uomo, no? Si vede anche dalla faccia: bella piena, sorridente, paciosa.

Ma la gente cambia.

Kibungo, Ruanda, aprile 1994: Seromba, Curato nella parrocchia di Nyange, a Kibungo, assieme al borgomastro e all’ispettore di polizia prepara e mette in pratica un piano diabolico per sterminare la popolazione tutsi della zona. Per incoraggiare i tutsi in fuga disperata nelle campagne a ripararsi nella parrocchia, il ministro di Dio li attrae in chiesa usando tutta la sua autorità di religioso: promette protezione. Intere famiglie - certe che gli interahamwe rispetteranno il tempio, come già accaduto durante i massacri degli anni precedenti - accettano l’ospitalità offerta dall’abate. Ma una volta dentro, scoprono di essere intrappolati.
Nessuno dà loro acqua e cibo e padre Seromba respinge il denaro dei rifugiati per acquistare pane e frutta. Si rifiuta persino di celebrare la messa. Il prete ordina ai gendarmi di sparare su quanti, calandosi dalle finestre, cercano di rubare frutti dal bananeto alle spalle della parrocchia. I bambini, in preda a febbre e dissenteria, piangono in continuazione. Manca l’aria, 2 mila persone vivono nella disperazione in un luogo che può contenerne al massimo 1.500. Il 13 aprile matura il primo attacco: i miliziani estremisti circondano la chiesa, sparano raffiche di fucile sui civili inermi e tirano granate all’interno. Nella confusione, tra urla e schizzi di sangue, qualcuno riesce a scappare, ma viene catturato. I testimoni sentono il sacerdote ordinare ai soldati di chiudere tutte le porte e di giustiziare i trenta tutsi bloccati mentre erano in fuga. Il 16 aprile – sempre secondo l’accusa - Seromba e le autorità locali decidono per la soluzione finale. Chiamano gli autisti di due bulldozer della società italiana Astaldi, che sta costruendo la strada da Gitarama a Kibuye. L’idea è micidiale: seppellire i rifugiati sotto le macerie del luogo sacro. «Gli hutu sono tanti. Questa chiesa verrà ricostruita in tre giorni», sentenzia l’abate dando all’autista attonito l’ordine di procedere. Pochi minuti prima un suo collega, che si era rifiutato di agire, era stato ammazzato con un colpo alla testa. Con movimenti coordinati le due macchine demoliscono i muri della chiesa, mentre la popolazione del villaggio, armata di machete e bastoni, circonda l’area per attaccare chi cerca di fuggire. Dentro trovano la morte 2mila tutsi. Qualche colpo di machete pare lo abbia inferto pure lui.
Nella puzza di sangue e di fumo, il prete assassino si levò con autorità, e indicando i morti, i pezzi dei morti, ordinò di “levare di torno quella immondizia”.



Ma la sfiga vuole che la guerra civile la vincono proprio i tutsi, migliaia di assassini genocidi vengono arrestati, ma di padre Anthanase Seromba, nessuna traccia. Il prete assassino è scomparso, nessuno, neanche i suoi complici del “Comitato Speciale per la Sicurezza” di Nyange ne sanno più nulla. Viene emesso un mandato di arresto internazionale. E le polizie di tutto il modo lo cercano invano.

Dov'è finito padre Seromba?

Firenze, Italia, 1999: Da un paio d’anni era stato nominato, nella chiesa di S. Martino a Montughi , un nuovo vice-parroco. Il fatto che fosse straniero, e africano, fece effettivamente un po’ di scalpore, nel borghese quartiere cittadino, abituato a parroci – come dire – più tradizionali. Ma dopo le prime incertezze, fedeli e abitanti in genere della zona hanno imparato ad apprezzare l’efficienza e la cordialità di don Atanasio Sumba Bura, come dice di chiamarsi. Don Atanasio è arrivato nel 1997, con discrezione e con la benevola presentazione della diocesi fiorentina. Anzi, l’arcivescovado ha raccomandato la massima collaborazione e mobilitazione affinché don Atanasio potesse facilmente integrare nella comunità. Per due anni tutto va benissimo, aggraziate palazzine liberty e pesanti palazzoni anni ’50 avvolgono la vecchia chiesa in una normalissima vita di routine. Ma 1 milione di morti pesano sulla coscienza dell’umanità, e una associazione, African Rights, organizzazione simile a quelle ebraiche che non smisero mai di cercare i gerarchi nazisti, arriva fino a Firenze, fino a Montughi, fino a S. Martino, e, insospettita dal nome troppo simile a quello di un latitante irrintracciabile, scatta foto e prende informazioni, confronta dati e convoca testimoni. E riconosce Anthanase Seromba, lì, a S. Martino, a Montughi, a Firenze.



La notizia è una bomba, ma in Italia non esplode. È solo grazie ad un servizio accuratissimo del britannico Sunday Thimes che il caso fa il giro del mondo. Solo a quel punto (siamo nel novembre 1999) si mobilita la magistratura italiana. Don Anthanase nega, si infuria, convoca giornalisti, e rilascia dichiarazioni fiume, nelle quali accenna a molte cose: alla quasi omonimia; alla sua assenza dal Ruanda ai tempi dei massacri; alla sua ordinazione sacerdotale che sarebbe successiva al 1994, addirittura ad un complotto anglo-americano… insomma, ai cronisti racconta la sua verità. Ad una sola condizione: non scattare fotografie.
Immediatamente, parte la “schermatura” della curia fiorentina. Don “Sumba Bura” viene custodito, difeso, avvolto in un abbraccio protettivo impenetrabile. Arcivescovo, vescovi e parroci esprimono solidarietà e sicurezza di innocenza, e lanciano segnali a magistrati e tribunali: don Atanasio non si tocca. Per intanto, Atanasio viene trasferito in una parrocchia del circondario, a S. Mauro a Signa, sulle colline.
Più tranquillità, meno curiosi, probabilmente una parrocchia più plasmabile. Poi, quando le acque si calmano un poco, semplicemente, sparisce. Tutti immaginano che sia fuggito, si sia dato ad una difficile e drammatica latitanza. Ma non è così, in realtà. Passerà tempo, prima che si sappia dove si trova: a 25 metri dalla Cattedrale di Firenze, nella sede arcivescovile, che, essendo cardinalizia, è sotto sovranità vaticana, e quindi, diciamo così, extraterritoriale.

Anthanase Seromba, alias Atanasio Sumba Bura è stato nascosto dalle autorità ecclesiastiche in una sorta di impenetrabile ed inespugnabile fortino. Mentre l’interpol e le autorità del Tribunale lo ricercano, mentre i parenti degli uccisi lo reclamano, mentre le lettere ufficiali di African Right arrivano a Sua Eminenza il Cardinale e persino a Sua Santità il Papa, lettere che richiedono collaborazione per la giustizia in una vicenda di genocidio e orrore, la Chiesa fiorentina lo nasconde. Lo accudisce. Ne prepara, in un segreto lungo due anni, la difesa.

Poi, nell’agosto del 2001, ecco un comunicato: ''Don Athanase Seromba non è « fuggito », come hanno scritto alcuni giornali: è tuttora ospite dell'arcidiocesi di Firenze e ribadisce di essere pronto a rispondere di fronte alla legge per tutte le accuse che lo riguardano'', dichiara il portavoce della Curia fiorentina, Riccardo Bigi. Anthanase “non intende affatto sottrarsi a un eventuale processo”, anche se, precisa Bigi, ''A tutt'oggi, non ha ancora ricevuto nessun atto ufficiale di accusa, e non conosce quindi le imputazioni se non attraverso quello che e' stato pubblicato sui giornali''. Il comunicato si chiude con la denuncia della “disinformazione in Ruanda'', e con l’esternazione di “forti sospetti sulla imparzialità di African Rights.”
La Curia Fiorentina si dimentica però di “comunicare” come mai adesso, a due anni di distanza, il vice parroco ruandese risulti essere proprio Anthanase Seromba, e non Atanasio Sumba Bura, e si dimentica pure di dire come mai gli fossero state affidate due parrocchie sotto falso nome.



Due anni di attesa, due anni di occultamento dietro le finestre sotto le quali passano ogni giorno migliaia di turisti, dalle quali si vede il Battistero romanico e la cupola brunelleschiana. Due anni duranti i quali ONU e altre autorità avevano ricercato ovunque l’accusato. Una vera missione pastorale, questo tirarla per le lunghe. E non senza scopo. Infatti, nel 2001, in Italia succede qualcosa: Berlusconi torna al governo. Cosa c’entra? C’entra. Vediamo il susseguirsi dei fatti.
Il procuratore generale dei tribunali internazionali per i crimini nel Kosovo e in Ruanda è, appunto, Carla del Ponte, la super-giudice svizzera amica di Falcone e essenziale collaboratrice nelle indagini italiane su mafie e corruzione, indagini nelle quali Berlusconi (o qualche suo amico) è inciampato più volte.
Il 12 luglio 2001, rimettendo a punto le denuncie e i precedenti mandati di cattura, la Del Ponte emette un ordine di cattura internazionale per genocidio nei confronti di quattro ruandesi : l’ex ministro delle finanze, un musicista, e due preti cattolici. Uno di essi è Anthanase. In tutta europa scatta una operazione coordinata, e i tre latitanti che si trovavano rispettivamente in Belgio, Olanda e Svizzera sono consegnati alle autorità competenti. L’Italia, al contrario, non esegue. Nonostante una risoluzione specifica dell’ONU (la 955 : "Tutti gli Stati devono cooperare pienamente con il Tribunale internazionale… i Paesi membri delle Nazioni Unite sono obbligati a cooperare senza indugi con ogni richiesta di arresto e consegna di qualsiasi persona incriminata dalla Corte.”), il ministero della Giustizia fa sapere che le relative leggi di ratifica non sono mai state approvate, e quindi una simile estradizione non è possibile. Si risponde dunque ad una legittima richiesta con una confessione di inadempienza giuridica. L’ufficio della Procura Speciale comincia ad innervosirsi: "per il Tribunale dell'ex Jugoslavia ci avete messo due giorni ad adeguare la legge" sbotta l’inviato svizzero ad un funzionario del Ministero di via Arenula. Poi gli rammenta: "Guardi che basta un decreto legge, una cosa che si fa in poche ore". L’incredibile risposta è: "Sa, per un decreto ci vuole tempo, occorre vagliare, vedere. L'ex Jugoslavia è alle porte di Roma. Il Ruanda è migliaia di chilometri lontano" (queste frasi sono state riportate, virgolettate, da Diario, ndr).
Carla Del Ponte non regge l’affronto, e chiede un immediato incontro con Berlusconi. Non se ne farà di nulla. E l’Italia, per queste omissioni, viene ufficialmente biasimata alle Nazioni Unite.
Nel frattempo, dall’arcivescovato fiorentino, continuano a partire comunicati, nei quali si ribadisce che Seromba è “ospitato e protetto” in luogo segreto (l’arcivescovado stesso, come si saprà un mese dopo). Le autorità ecclesiastiche e il governo italiano sembrano andare avanti con una perfetta sincronia. L’avversità di Berlusconi nei confronti della Del Ponte e quella di Castelli nei confronti di qualsiasi trattato di estradizione vanno a braccetto con la voglia della curia di frenare, rallentare, nascondere, giustificare.
Intanto, dopo l’11 settembre, governo, chiesa ed istituzioni si sbracciano alla ricerca dell’aggettivo più enfatico da affiancare a “terrorismo” “fanatismo” “estremismo” “guerra” “vite spezzate”... Si proclamano principi su “giustizia” “pace” “democrazia”, nonché “severità” “intransigenza” e “immigrazione clandestina”. Nessuno però collabora con l’ONU per consegnare un sospetto genocida a chi di competenza.
Invece il Vaticano avvia trattative con il Tribunale e con le autorità ruandesi. Ottiene assicurazioni sui seguenti punti: il sacerdote non deve essere trasferito in Ruanda, né incarcerato con altri hutu incriminati nelle prigioni internazionali in Uganda, Burundi e Congo. Non deve essere condannato a morte, e deve avere un trattamento di riguardo.

Il 6 febbraio 2002 Seromba si consegna al International Criminal Tribunal for Rwanda (Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda, ICTR) ad Arusha (Tanzania), dove viene processato per genocidio e crimini contro l'umanità. Il 13 dicembre 2006 viene giudicato colpevole e condannato a 15 anni di carcere, ricevendo anche l'estradizione dall'Italia.
Nel marzo 2008, il processo di appello ha condannato Seromba all'ergastolo, affermando che ha partecipato attivamente ai massacri e non ha dimostrato alcun segno di pentimento.
Il 27 giugno 2009 è stato trasferito nella prigione di Akpro-Missérété a Port-Novo, in Benin.

Perché ho segnalato questa storia?




grazie ai Paguri per avermi fatto conoscere questo fulgido esempio di religiosità.

3 commenti:

Amal ha detto...

ti prego, ti supplico quello che vuoi ma dimmi che non è vero. dimmi che è una favoletta un modo di dire, una leggenda e che con la realtà non ha nulla a che fare...

preacher ha detto...

purtroppo è tutto vero.

Unknown ha detto...

Quando ho saputo di tutta qusta vicenda ero indeciso se mettermi a vomitare, a piangere o a bestemmiare. Per abitudine, ho scelto la terza (la prima di solito succede più che altro dopo un'eccessiva ingestione di birra). Sono toccato, ancora più che dalla brutalità e dall'entità del massacro stesso, dall'indecente e sordida opera di insabbiamento, e non è che caschi dal pero proprio ora. Diciamo che non nutro un'eccessiva simpatia nei riguardi della Chiesa santa, cattolica e apostolica, e sia al corrente dell'esistenza di fatti riguardanti IOR, Magliana, Mafia, P2, De Pedis, Marcinkus, Banco Ambrosiano, Calvi, ecc. E non sono neanche nuovo ad insabbiamenti e dimenticanze in generale, al tempo della tesina di maturità ho scelto come argomento gli Anni di Piombo come mera scusa per documentarmi, e sono finito con 80 pagine solo di storia (di cui ovviamente non mi è stato chiesto una ricca sega), quando la lunghezza media delle tesine è di 20 paginette scarse. Però, per la Madonna! Sono stupito anzichenò della spudoratezza e dell'entità delle mossacce che si permettono, che denotano quindi una sicura coscienza del poterla fare franca sempre e comunque e poter disporre di un immenso gregge di belanti pecoroni che continuano a seguirli, in barba alla singola pecora che se ne va bestemmiando a causa del loro marciume, e che il Cristo diceva di inseguire abbandonando le altre. Che schifo, dopo di questo c'è ancora chi va dietro ai "rappresentanti commerciali di Dio in terra" (cit.) e a certi nostri politicanti, al cui confronto, il marciume degl'altri è santità.

Solo una cosa tuttora mi sfugge e mi lascia perplesso: come mai il nostro salvatore di 2000 anime, che strappò agli orrori della guerra etnica per consegnarle tra le braccia di Cristo Redentore per la pace e la tranquillità eterna, si consegnò all'ICTR nel 2002? Lo fece di sua spntanea volontà, perseguitato dagl'incubi delle sue gesta, o seguì il Verbo della Sacra Romana che, veduto ormai avvicinarsi il limite della decenza e della pazienza del mondo intero, capì che non si poteva nascondere e insabiare oltre agl'occhi del mondo, pur avendo l'Italia dalla propria? Mi sembra curioso un così repentino cambio d'orientamento dopo una sì brutale e decisa ostinazione nel coprire un solo collega col rischio (see, figuriamoci!) di compromettere la credibilità e la salute giuridica dell'istituzione intera.