sabato, novembre 13, 2010

Una prova giovanile di traduzione: Il ponte del Troll, di Neil Gaiman.

Circa diciassette anni fa cercai di allenare il mio inglese traducendo un racconto di Neil Gaiman pubblicato su Previews come anticipazione della sua antologia "Angels & Visitations". Ecco il risultato.

nota: le illustrazioni sono di Mark Buckingham, e sono state pubblicate nel 1994 insieme al racconto originale sul numero 30 di Comic's World.

IL PONTE DEL TROLL



I.

Tolsero la maggior parte dei binari della ferrovia nei primi anni '60, quando avevo tre o quattro anni. Ridussero i servizi ferroviari a brandelli, così non rimase nessun altro posto dove andare tranne Londra, e la cittadina dove vivevo divenne il capolinea.

Il mio primo ricordo sicuro: a diciotto mesi, mia madre all'ospedale in attesa di mia sorella, e mia nonna che cammina con me su un ponte e mi solleva per guardare il treno al di sotto, che ansima e fuma come un drago nero di ferro.

Nei pochi anni seguenti sparirono le ultime locomotive, e con loro la rete di binari che univa villaggio a villaggio, città a città. Non sapevo che i treni stavano scomparendo. Quando avevo sette anni facevano già parte del passato.

Vivevamo in una vecchia casa ai confini della città. I campi di fronte erano disabitati ed incolti, e mi piaceva scalare la staccionata, sdraiarmi all'ombra dei giunchi e leggere, oppure, quando mi sentivo più avventuroso, esplorare il terreno attorno alla villa disabitata al di là dei campi. C'era uno stagnetto pieno di erbacce, con sopra un ponticello di legno.

Non avevo mai visto guardiani nelle mie scorrerie attraverso boschi e prati, ma non mi ero mai azzardato ad entrare nella villa. Questo voleva dire andare in cerca di guai, e poi ero sicuro che tutte le vecchie case disabitate fossero infestate dai fantasmi.

Non ero uno sciocco, credevo soltanto in tutte le cose oscure e pericolose: faceva parte delle mie convinzioni giovanili la certezza che la notte fosse popolata da fantasmi e da streghe affamate, svolazzanti e vestite di nero. Il contrario era altrettanto vero in modo rassicurante: la luce del giorno era la salvezza. Il giorno significava sempre salvezza.

Un rito: l'ultimo giorno di scuola, tornando a casa, mi toglievo scarpe e calzini e, tenendoli in mano, camminavo a piedi scalzi sul viottolo duro e sassoso. Durante le vacanze mi mettevo le scarpe soltanto con la forza, finché la scuola non ricominciava un'altra volta, a settembre.

A sette anni scopersi il sentiero attraverso il bosco: era un'estate calda e luminosa, e quel giorno mi ero allontanato molto da casa.

Ero in esplorazione. Ero andato oltre la villa e le sue finestre cieche, chiuse con le assi, attraverso campi e boschi sconosciuti. Mi ero calato da un'altura scoscesa, trovandomi su un sentiero che non conoscevo, ombroso e coperto dagli alberi. Attraverso le foglie penetrava una luce verde e oro, e pensai di essere arrivato nel paese delle fate. Un ruscello gocciolava su un lato del sentiero, brulicante di piccolissimi gamberetti trasparenti. Ne tirai un po' su con le mani e li guardai sussultare e girare sulle dita. Poi li ributtai dentro.

Vagavo sul sentiero. Era perfettamente diritto e coperto da erba bassa. Ogni tanto trovavo delle pietre veramente straordinarie, marroni e porpora e nere, fuse e piene di bolle. Mettendole in controluce potevo vedere tutti i colori dell'arcobaleno. Ero convinto che fossero di enorme valore, così me ne riempii le tasche.

Camminai e camminai lungo il silenzioso sentiero verde-oro, e non vidi nessuno. Non avevo fame né sete, mi chiedevo soltanto dove sarebbe arrivato il sentiero. Era diritto e pianeggiante, qualche volta sul fondo di una gola, qualche volta sul bordo, così che potevo vedere giù le cime degli alberi e alcune case.

Valli e altipiani, valli e altipiani. E alla fine, in una di queste valli, arrivai al ponte.

Era fatto di mattoni rossi e lisci, un enorme arco sopra il sentiero. Alla base del ponte c'erano degli scalini di pietra intagliati nell'argine, e in cima un cancellino di legno.

Mi meravigliai di vedere un segno dell'esistenza dell'uomo sul sentiero, poiché ero stato sicuro fino ad allora che fosse una formazione naturale, come un vulcano. E, con un senso più di curiosità che d'altro (avevo, dopotutto, camminato per centinaia di miglia, o almeno così credevo, e potevo essere ovunque), salii i gradini e mi incamminai sul ponte.

Non ero da nessuna parte.

Il ponte era lastricato di fango, e da entrambi i lati c'era un prato. Quello dalla mia parte era un campo di grano, l'altro soltanto erba. Nel fango secco c'erano le impronte indurite di ruote di trattore. Mi incamminai attraverso il ponte per essere sicuro: nessuno scalpiccio, i miei piedi scalzi non facevano rumore.

Niente per miglia; solo campi, grano e alberi.

Raccolsi una spiga di grano e tolsi i chicchi, sbucciandoli fra le dita e masticandoli pensieroso. Mi resi conto di essere affamato e tornai verso i gradini e la ferrovia abbandonata. Era ora di tornare a casa. Non mi ero perso, tutto quello che dovevo fare era seguire il sentiero verso casa.

Sotto al ponte c'era un troll che mi aspettava.

"Sono un troll", disse. Fece una pausa e poi aggiunse, quasi come un ripensamento, "Fol rol de ol rol".

Era enorme, la testa sfiorava la cima dell'arco di mattoni. Era quasi trasparente, potevo vedere le pietre e gli alberi dietro di lui, offuscati ma non scomparsi. Era ogni mio incubo divenuto realtà. Aveva zanne enormi, forti mani pelose e artigli spuntati. I capelli erano lunghi come quelli delle bambole di mia sorella, e gli occhi gonfi. Era nudo, e il pene gli ciondolava dal cespuglio di peli fra le gambe.

"Ti ho sentito, Jack", sussurrò con una voce simile al vento, "Ti ho sentito camminare sul mio ponte. E adesso ti mangio la vita".

Avevo solo sette anni, ed era giorno, così ricordo di non essermi impaurito. E' facile per i bambini trovarsi a fronteggiare i personaggi delle fiabe, sono preparati a trattare con loro.

"Non mi mangiare", dissi al troll. Avevo addosso una maglietta a strisce marroni, e pantaloni marroni, i miei capelli erano castani, e mi stava per cadere un incisivo. Stavo imparando a fischiare tra i denti, ma non ne avevo abbastanza.

"Ti mangio la vita, Jack", ripeté il troll.

Lo guardai in faccia. "Mia sorella maggiore sta per arrivare dal sentiero", mentii, "ed è molto più buona di me. Mangia lei".

Il troll annusò l'aria e rise. "Sei solo", disse. "Non c'è nessun altro sul sentiero. Nessun altro". Si sdraiò e passò le dita su di me; sembravano farfalle che mi sfioravano il volto, come il tocco di un cieco. Poi le annusò, e scosse la testa enorme. "Tu non hai una sorella maggiore. Hai solo una sorellina più piccola, ed oggi è dalle sue amichette".

"Puoi capire tutto questo dall'odore?", chiesi meravigliato.

"I troll possono sentire l'odore degli arcobaleni. Possono sentire l'odore delle stelle", sussurrò tristemente. "I troll possono sentire l'odore dei sogni che facevi prima di nascere. Avvicinati, e ti mangerò la vita".

"Ho delle pietre preziose in tasca", dissi al troll. "Prendi quelle, non me. Guarda". Gli mostrai i gioielli di lava che avevo trovato prima.

"Scorie", disse. "Rifiuti lasciati dai treni a vapore. Non hanno nessun valore". Spalancò la bocca. Zanne appuntite. Fiato puzzolente di foglie marce e cose putride. "Ora ti mangio".

Diventava sempre più solido, sempre più reale, e il mondo dietro di lui diventava meno definito, spariva.

"Aspetta". Affondai i piedi nella terra umida sotto al ponte, spingendo con le dita, aggrappandomi saldamente al mondo reale. Lo guardai negli occhi. "Tu non vuoi mangiarmi la vita. Non ancora. Ho...ho solo sette anni. Non ho vissuto abbastanza. Ci sono libri che non ho ancora letto. Non sono mai stato su un aereo. Non riesco ancora a fischiare. Perchè non mi lasci andare? Quando sarò più grande, più forte, più di uno spuntino, tornerò da te".

Il troll mi osservò con i suoi occhi grandi come fanali.

Poi annuì.

"Quando tornerai", disse. E sorrise.

Mi voltai e tornai indietro lungo il viottolo diritto e silenzioso, dove un tempo c'erano stati i binari della ferrovia.

Dopo un po' cominciai a correre.

Corsi a perdifiato sul sentiero, nella luce verde, ansimando, finché non provai una fitta acuta al torace, dolore, e stringendomi il fianco andai a sbattere contro casa mia.

II.

I campi cominciarono a sparire mentre crescevo. Una dopo l'altra, fila su fila, spuntavano case e strade con nomi di fiori di campo e di artisti famosi. La nostra casa, una vecchia abitazione vittoriana malmessa, era stata venduta e demolita; nuovi palazzi coprivano il giardino.

Avevano costruito ovunque.

Una volta mi persi nel nuovo gruppo di abitazioni che copriva due prati dei quali un tempo avevo conosciuto ogni centimetro. Comunque non mi importava molto che i campi stessero scomparendo. La vecchia villa era stata acquistata da una multinazionale, e sui terreni circostanti c'erano altre case.

Passarono otto anni prima che ritornassi alla vecchia linea ferroviaria, e quando successe non ero solo. Avevo quindici anni, e nel frattempo avevo cambiato scuola due volte. Lei si chiamava Louise, ed era il mio primo amore.

Amavo i suoi occhi grigi, e i suoi bei capelli castano chiari, e il suo modo goffo di camminare (come quello di un cerbiatto che impara a camminare e sembra veramente stupido, ma di questo me ne pento): l'avevo vista masticare una gomma quando aveva tredici anni e mi aveva fatto sentire come un suicida sul ponte.

Il problema principale nell'innamorarsi di Louise era che eravamo amici, e che uscivamo entrambi con altre persone. Non le avrei mai detto che l'amavo, o soltanto che la desideravo. Eravamo come fratelli.

Ero stato a casa sua quel pomeriggio; sedevamo nella sua stanza ad ascoltare Rattus Norvegicus, il primo album degli Stranglers; eravamo all'inizio del punk e tutto sembrava eccitante, le possibilità, nella musica ed in tutto il resto, sembravano infinite. Alla fine arrivò l'ora di tornare a casa, e lei decise di accompagnarmi. Ci tenevamo per mano, innocentemente, da amici, percorrendo i dieci minuti di strada verso casa mia.

La luna splendeva, il mondo era visibile e privo di colori, e la notte era calda.

Arrivammo a casa mia. Vedemmo le luci all'interno e restammo per strada, a parlare del complesso che stavo formando. Non entrammo.

Poi decidemmo che avrei accompagnato lei a casa, così tornammo indietro.

Mi raccontò dei litigi con sua sorella minore, che le rubava trucchi e profumo. Louise sospettava che andasse a letto coi ragazzi. Lei era vergine. Lo eravamo entrambi.

Restammo in piedi per strada fuori da casa sua, sotto la luce gialla del lampione al sodio, e ci guardavamo l'un l'altra le labbra nere e le facce giallognole.

Ci sorridemmo.

Poi ricominciammo a camminare, scegliendo con cura strade vuote e silenziose.

In uno dei nuovi gruppi di case una stradina ci guidò verso il bosco, e la seguimmo.

Il sentiero era buio e diritto, ma le luci delle abitazioni lontane brillavano sul terreno come stelle, e la luna ci dava abbastanza luce per vedere. Una volta ci impaurimmo, quando di fronte a noi qualcosa sbuffò e grugnì. Ci stringemmo forte l'uno con l'altra. Era un tasso. Ridemmo e ci abbracciammo, e continuammo a camminare. Parlavamo di sciocchezze come i nostri sogni, i nostri desideri, le nostre idee, e per tutto il tempo avrei voluto baciarla e sentirla...

Finalmente ebbi l'occasione. C'era un vecchio ponte di mattoni sul sentiero e ci fermammo sotto. Mi strinsi a lei, la sua bocca aperta contro la mia.

D'un tratto diventò fredda e rigida, e smise di muoversi.

"Salve", disse il troll.

Mi staccai da Louise. Era buio sotto il ponte, ma la sagoma del troll riempiva l'oscurità.

"L'ho paralizzata", disse, "così possiamo parlare. Allora: mi sto per mangiare la tua esistenza".

Il cuore mi batteva forte, e potevo sentirmi tremare.

"No".

"Hai detto che saresti tornato, e l'hai fatto. Hai imparato a fischiare?"

"Sì".

"Bene. Non mi è mai riuscito". Sbuffò e annuì. "Sono contento. Sei cresciuto e maturato. Più cibo. Meglio per me".

Afferrai Louise, uno zombi rigido, e la spinsi in avanti.

"Non prendere me. Non voglio morire. Prendi lei. Scommetto che è molto più buona di me. Ed è più grande di due mesi. Perchè non prendi lei?"

Il troll rimase in silenzio.

Annusò Louise dalla testa ai piedi, sbuffando ai piedi, fra le gambe, sul seno e sui capelli. Poi guardò verso di me.

"E' innocente", disse. "Tu no. Non voglio lei, voglio te".

Indietreggiai da sotto il ponte e guardai in su, la notte e le stelle.

"Ma c'è ancora così tanto che non ho fatto", dissi, in parte a me stesso. "Voglio dire, non ho... Beh, non ho mai fatto l'amore. E non sono mai stato in America. Non ho...", mi bloccai. "Non ho fatto niente. Non ancora".

Il troll non rispose.

"Tornerò. Lo giuro".

"Tornare da me?", disse Louise. "Perchè? Dove vai?"

Mi voltai. Il troll era scomparso, e la ragazza che avevo creduto di amare era nell'oscurità, ai piedi del ponte.

"Andiamo a casa", le dissi. "Vieni".

Tornammo indietro senza dire niente.

Louise cominciò a uscire col batterista del mio complesso e, molto tempo dopo, si sposò con qualcun altro.

Ci incontrammo una volta, sul treno, e mi chiese se ricordavo quella notte. Le dissi di sì.

"Mi piacevi veramente quella notte, Jack", mi disse. "Pensavo che tu stessi per baciarmi, che mi volessi chiedere di uscire insieme. Avrei detto di sì. Se lo avessi fatto".

"Ma non l'ho fatto".

"No", disse. "Non l'hai fatto". Aveva i capelli troppo corti. Non le donavano.

Non l'ho più vista. Quella donna ordinata, col sorriso freddo, non era la ragazza che avevo amato, e parlare di lei mi fa stare male.

III.

Mi sono trasferito a Londra, poi qualche anno dopo sono tornato, ma la città che ho trovato non era quella che ricordavo: non c'erano prati, né fattorie, né viottoli sterrati; così traslocai il più rapidamente possibile in un piccolo villaggio dieci miglia lungo la strada.

Traslocai con la mia famiglia - ero sposato, allora, con un figlio - in una vecchia abitazione che una volta, molti anni prima, era stata una stazione ferroviaria. I binari erano stati tolti, e l'anziana coppia che viveva di fronte a noi li usava per recintare l'orto.

Stavo invecchiando. Un giorno trovai un capello grigio, un altro ascoltavo una registrazione della mia voce e mi resi conto che sembravo mio padre.

Lavoravo per una delle case discografiche più importanti, e andavo a Londra in treno quasi tutti i giorni. Alcune volte non tornavo a casa, così affittai un piccolo appartamento; è difficile fare il pendolare quando i gruppi di cui ti occupi non salgono sul palco fino a mezzanotte. Tutto questo voleva dire che era facile rimediare da scopare, se volevo, e lo feci.

Pensavo che Eleanora - così si chiamava mia moglie, credo che avrei dovuto dirlo prima - non sapesse delle altre donne, ma un giorno d'inverno tornai da un soggiorno di due settimane a New York e quando arrivai a casa la trovai fredda e vuota.

Mi aveva lasciato una lettera, non un biglietto. Quindici pagine, ben dattiloscritte, ed ogni parola era vera. Compreso il post-scriptum, che diceva: 'Tu non mi ami. Non mi hai mai amato'.

Indossai un cappotto pesante, uscii di casa e camminai, stordito e leggermente infreddolito.

Non c'era neve, ma un freddo gelido, e le foglie scricchiolavano sotto i piedi mentre camminavo. Gli alberi si stagliavano neri e scheletrici contro il grigio severo del cielo invernale.

Camminavo sul ciglio della strada. Le auto mi oltrepassavano, in viaggio per o da Londra. Inciampai in un ramo mezzo nascosto da un mucchio di foglie secche, strappandomi i pantaloni e ferendomi la gamba.

Raggiunsi il paese vicino. C'era un ruscello perpendicolare alla strada, e accanto ad esso un sentiero che non avevo mai visto prima, sul quale mi incamminai. Guardavo il ruscello, in parte ghiacciato, che gorgogliava e spruzzava e cantava. Il sentiero si inoltrava attraverso i campi, diritto ed erboso.

Trovai una pietra, mezza sepolta su un lato del viottolo. La presi e la ripulii dal fango. Era un blocco fuso di roba purpurea, con dei riflessi multicolori. La misi nella tasca del cappotto mentre camminavo, una presenza calda e rassicurante.

Il ruscello vagava attraverso i campi, io continuavo ad andare avanti in silenzio. Camminai per un'ora prima di vedere delle case, nuove, piccole e squadrate, sull'argine sopra di me.

E poi vidi il ponte, e riconobbi dov'ero; ero sul vecchio sentiero della ferrovia, e avrei dovuto discenderlo dall'altra parte.

C'erano dei graffiti sul fianco del ponte: 'vaffanculo', e 'Barry ama Susan', e l'onnipresente 'NF' del National Front.

Ero sotto il ponte, sotto l'arco di mattoni rossi, in piedi fra la carta dei gelati, i sacchetti di patatine ed un solo, triste preservativo usato, e guardavo il fumo del mio fiato nella fredda aria del pomeriggio. Il sangue mi si era seccato sui pantaloni. Le auto passavano sopra di me, in una di esse una radio andava a tutto volume.

"C'è nessuno?", sussurrai, sentendomi imbarazzato, stupido. "Ci sei?"

Nessuna risposta.

Il vento faceva rotolare i sacchetti di patatine e le foglie.

"Sono tornato. Ho detto che l'avrei fatto. E sono tornato. Ci sei?"

Silenzio.

Cominciai a piangere, stupidamente, in silenzio, singhiozzando sotto il ponte.

Una mano mi toccò il viso, e guardai su.

"Non credevo che saresti tornato", disse il troll.

Adesso era alto come me, ma per il resto non era cambiato. Il cesto di capelli lunghi era spettinato, con sopra delle foglie, e il suo sguardo saggio e solo.

Scrollai le spalle e mi asciugai il viso con gli angoli del cappotto. "Eccomi".

Tre ragazzi passarono sul ponte, gridando e correndo.

"Sono un troll", sussurrò con una voce flebile. "Fol rol de ol rol".

Stava tremando.

Avvicinai la mano e presi la sua zampa curva e con gli artigli. Gli sorrisi. "Va tutto bene", gli dissi. "Sul serio. Va tutto bene".

Il troll annuì.

Mi gettò a terra, fra le foglie le cartacce e il preservativo, e si abbassò su di me. Poi alzò la testa, aprì la bocca, e mangiò la mia esistenza con le sue zanne appuntite.



IV.

Quando ebbe finito il troll si alzò in piedi e si spazzolò con cura. Mise una mano nella tasca del cappotto e tirò fuori un blocco di pietra di scarto fuso e pieno di bolle.

Me lo gettò.

"Questo è tuo", disse.

Lo guardai: vestiva la mia vita comodamente, come se l'avesse indossata per anni. Presi il sasso e lo annusai. Potevo sentire l'odore del treno dal quale era caduto così tanto tempo prima. Lo strinsi con forza nella mia mano pelosa.

"Grazie", dissi.

"Buona fortuna", disse il troll.

"Sì. Beh... Anche a te".

Il troll sorrise col mio viso. Si voltò e cominciò a camminare lungo la strada dalla quale ero arrivato io, verso il villaggio, verso la casa vuota che avevo lasciato quella mattina, e mentre camminava fischiava.

Da allora io sto qui. Nascosto. In attesa. Parte del ponte.

Osservo nell'ombra quando la gente passa, a spasso col cane, parlando, o facendo le cose che la gente fa di solito. Qualche volta qualcuno si ferma sotto il mio ponte, a indugiare, a pisciare o a fare l'amore. E li guardo, ma non dico niente, e loro non si accorgono di me.

Fol rol de ol rol.

Voglio stare qui, nell'oscurità sotto l'arco. Posso sentirvi tutti, voi là fuori, camminare e camminare sul mio ponte.

Certo, posso sentirvi.

Ma non vengo fuori.

(The Troll's bridge. Neil Gaiman, Angels & Visitations, Dream Heaven Books, 1993)

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