lunedì, ottobre 30, 2006

Fili in sospeso, capitolo terzo

3.

"Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?" "Sono andato a letto presto."

(Robert De Niro: "C'era una volta in America")

In pochi secondi siamo l'uno di fronte all'altra. Cerco di darmi un contegno, mantenendo il sorrisino che mi sono stampato in faccia e inscrivendo cerchi immaginari sul palmo della mano destra con il bicchiere di plastica vuoto

"Allora eri tu quello che avevo intravisto all'oratorio." mi dice. ('Non diventare rosso non diventare rosso non diventare rosso')

"Già." rispondo, sempre sorridendo.

Doppio bacio sulle guance, come vuole la buona creanza.

Sono quattro anni che non la vedo e sembra ieri. Che fai, come vanno gli studi, gli esami, la tesi, niente di tutto questo. Non è importante, non è il nocciolo della questione. Il nocciolo lo trova lei, subito.

"Perchè non mi hai più chiamato?" mi chiede.

Che le rispondo? Mi scusi professore non sono preparato ho studiato ma non ho ripassato domani vengo volontario?

"Perchè chiamarti?" comincio. "Tu hai la tua vita, io la mia. Meglio così, vedersi quando vuole il caso." e sottolineo la frase con un gesto vago della mano col bicchiere ('Che ganzo che sono!').

"E poi," continuo, "hai fatto caso alle stranezze del destino? Fra quattro giorni sono dieci anni che ci conosciamo."

Questa era da Harmony, lo so, così zuccherosa da far venire il diabete, ma alle donne piace che uno si ricordi queste date. Soprattutto piaceva a lei.

Infatti.

"Già" dice, e sorride. "E' vero. Non credevo te lo ricordassi."

"Ma in fondo le date sono numeri e basta, non contano nulla." Bevo un sorso di spumante, così da creare una pausa ad effetto, poi continuo. "Sono i fatti che danno importanza alle date."

Poso il bicchiere vuoto su un tavolo vicino. "Comunque, a parte la tua telefonata dell'anno scorso, era un bel pezzo che non ci si vedeva."

"Ormai a Castagno vengo solo a Natale e a Pasqua, e tu non ci sei mai stato. Ho rivisto Matteo, Gianni, Giampiero, ma te...." si blocca per un momento. "Cosa hai fatto di bello in tutto questo tempo?" mi chiede, con una brusca sterzata del discorso.

('Sono andato a letto presto') "Mah... Niente di particolare. Studio, esami, amici... le solite cose." Mi porto un dito alle labbra e mi faccio pensieroso per un attimo, poi porto il discorso su di lei: "Te invece sei cambiata. Ora sei bionda... Sapevo che c'eri, ma non ero riuscito a vederti, non ti avevo riconosciuta, per questo non..." Cerco di giustificarmi, falso come l'ottone, ma ci crede.

Tutto procede alla perfezione. No, proprio tutto no. Con la coda dell'occhio vedo un tizio alto, con gli occhiali, un completo verde e la cravatta, che ci passa vicino mentre parliamo. Dopo qualche minuto ripassa. ('Che cazzo guarda?')

Giorgia lo chiama: "Vieni qui, non fare lo scemo."

Il tizio si ferma, si volta e viene verso di noi. "Lui è Marco," dice Giorgia presentandomelo, "il mio fidanzato. Marco, lui è Lorenzo."

Per me poteva continuare a fare lo scemo girellando per il rinfresco, ma già che c'è gli stringo la mano con vigore. ('E così questo coso lungo sarebbe lui...')

"Penso di averti già visto." gli dico, guardandolo, per forza di cose, di sotto in sù.

"Quando?" chiede incuriosito.

La risposta la dò a Giorgia. "Non era lui che venne a prenderti con una Fiat 126, l'ultima volta che ci siamo visti, a Bologna?"

"Sì, è lui." risponde.

Quando vidi, o meglio intravidi, Marco a Bologna, non fu una gran giornata. Era il 1991, ottobre o novembre, non ricordo. Era passato più di un anno da quando avevo visto per l'ultima volta Giorgia a Castagno, eravamo stati alla chiesina e ci avevo riprovato clamorosamente, nonostante io avessi la ragazza, ma questo era un particolare di poca importanza in quel momento, e lei stesse già con Marco, e questo era un particolare di nessuna importanza in qualunque momento. Nel frattempo io mi ero lasciato, lei no.

Continuavo comunque a fare la mia vita, a studiare, uscire con gli amici, ogni tanto qualche ragazza, principalmente amiche...

Un pomeriggio, a Firenze, sono come sempre a casa di Carlo e Alessandro, due fratelli che conosco fin dalle scuole elementari. In camera loro, chi sdraiato sul letto, chi seduto, decidiamo cosa fare dopo cena.

"Si va a giocare a biliardo." propongo.

"E dove?", fa Alessandro, "Da Dentone o a Casellina?"

"Boh, è uguale. Però siamo in tre, bisognerebbe sentire Riccardo."

"Telefonagli" mi dice Carlo. "A proposito" continua. "Ieri ho telefonato alla Giorgia."

"Perchè?"

"Mah... così. Domenica volevo andare a fare un giro a Bologna. Ci si rompe sempre i coglioni di domenica, allora l'ho chiamata, le ha fatto piacere e s'è fissato. Te che fai, vieni?"

Lo sventurato rispose.

Giorgia quel giorno conferma quello che mi ha detto l'ultima volta alla chiesina, e cioè che negli ultimi anni si è avvicinata al Signore, che la Chiesa di sopra e la Chiesa di sotto, che mi deve ringraziare perchè stare con me l'ha aiutata a capire quali errori non avrebbe più ripetuto. In pratica si è rifatta una verginità, almeno morale, visto che quella fisica ancora non l'ha persa e non ha intenzione di perderla ancora per lungo tempo.

Per sottolineare la sua conversione ci porta anche a visitare un paio di chiese. Io invece, per sottolineare la mia coerenza, bestemmio (a bassa voce) nella canonica di una delle due chiese, dove c'è un frate che vende i prodotti del suo convento, fra i quali una bottiglietta di un liquore assassino che ci scoliamo durante il viaggio di ritorno, dopo aver visto allontanarsi Giorgia sulla 126 di questo fantomatico Marco.

In auto con Carlo sono particolarmente silenzioso, in preda ad una sega mentale incommensurabile.

'E' così cambiata', penso. 'Allora, chi amo? La Giorgia di oggi o quella di prima? E se è così cambiata, allora amo un fantasma, un ricordo? E che l'amo a fare, a questo punto? Se è un ricordo, non esiste più nella realtà, quindi è inutile che l'ami'.

Nonostante tutto, il ragionamento mi sembra giusto e decido di impegnarmi con tutte le forze per dimenticarla.

'Quasi non mi ricordo come si chiama.' rimugino. 'Anzi, non ricordo neanche quando l'ho conosciuta, e nemmeno quando io Carlo e Alessandro andammo a Riccione a trovarla....'

Interrompo il mio silenzio e mi rivolgo a Carlo, che guida: "Oh!" Lui si volta. "Ma che risate si fece quell'estate a Riccione, eh?" gli dico, con un mezzo sorrisino stampato sulla faccia.

"Ci si buttò via." Sorride anche lui. "Che te lo ricordi il francese? Come si chiamava, Francis?"

"Sì, il mulo parlante. Si chiamava Francois." lo correggo. "E te la ricordi la Paola? E quell'altra che andava dietro a Alessandro?"

"Sì, sì, che Alessandro poi un ci voleva tornare."

"Che anno era, l'86 mi sembra." Faccio un rapido calcolo mentale della data e continuo: "Sì, era l'86, perchè facevo diciott'anni precisi."

"E Cipolla?" dice Carlo.

"Chi, il babbo della Giorgia? Che elemento! Sempre serio, con quella pancia..."

"L'Adriatica poi si fece cinquanta volte..."

"Già. Noi sempre le solite fave, eh? Era troppo logico andare ad un campeggio di Riccione. No! Noi si doveva mettere la tenda a Milano Marittima e poi andare a Riccione tutto il giorno...."

"Che fave!"

"Che bischeri!"

Dopo un lungo momento di silenzio, entrambi presi dai ricordi di quei tre giorni, Carlo sospira: "Bei tempi, però."

"Già."

mercoledì, ottobre 18, 2006

Fili in sospeso, capitolo secondo

2.

I grandi amori si annunciano in modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?

(Ennio Flaiano)

Castagno è un paese piccolo, ma riesce ad essere diviso in quattro rioni: il Borgo, il centro, dove ci sono la maggior parte dei negozi, la chiesa, il Bar, e al quale ci si riferisce quando si dice "vò in paese"; Le Prata, con le propaggini di Le Prata alte, al limite del bosco, e del Fondaccio, ai confini meridionali del paese, detto anche la Terra Baiocca dagli altri castagnini; il Reglione, con la casa del popolo, un campo da tennis da prendere in affitto all'edicola, le vestigia in malora dell'albergo e un gruppetto di case popolari; e infine la Rota, il rione più in alto del paese, che ora vede l'assembramento di tutti i partecipanti al matrimonio, visto che il rinfresco si tiene proprio qui, nel prato dell'abitazione di Carlo, che da stanotte si sposterà di alcuni metri, nella casa che ha progettato (è geometra) e costruito.

Il prato è grande, circondato da un po' di alberi sparpagliati, e la zona del rinfresco è stata delimitata da lunghi tavoli imbanditi di crostini di ogni razza e religione, dolci, zuppiere di minestra di pane, vassoi di prosciutto, salame, finocchiona, piatti di pecorino e bottiglie di vino, sangria, vodka, grappa, birra.

In un angolo del prato, a una certa distanza da tavoli e sedie, c'è un piccolo forno a legna per le pizze e le focacce, mentre su una delle terrazze del caseggiato sono stati sistemati un enorme amplificatore, un leggio e una fisarmonica: si prevede ballo liscio.

Ancora non ho visto Giorgia. Per la verità, ho evitato in ogni modo di cercarla. Chiacchiero con Tommaso di chissà cosa, poi mi avvio ai tavoli e prendo un crostino. Vado verso il tavolo con le bottiglie, prendo da bere e vedo, a due o tre metri di distanza, la madre di Giorgia, seduta, che parla con una ragazza che mi dà le spalle, bionda, capelli lunghi e mossi. ('Cazzo!') Mi allontano e cerco qualcuno con cui parlare che si trovi alla distanza maggiore dal tavolo dei vini. Vado dagli sposi, circondati di persone, e sto un po' lì, bevo e guardo nella direzione del tavolo dei vini. La bionda è ancora di spalle, ha una giacca rossa, una gonna nera e un bel paio di gambe, non lunghe ma fatte bene. Ha appena finito di parlare e si incammina verso un altro gruppo di persone, poi si volta.

E' lei.

Non mi ha visto, sono confuso tra le persone vicine agli sposi. Vedo Matteo a sedere sui gradini della casa con una ragazza grassottella, con gli occhiali e i capelli neri e lunghi. E' un'altra cugina di Cristina, così mi avvicino per salutarla.

"Ciao Stefania"

"Ciao". Si alza, doppio bacio sulle guance come vuole la buona creanza, e si siede di nuovo sui gradini, seguita da me.

"Ti si vede solo per i matrimoni, eh?" le chiedo, tanto per dire qualcosa.

"E che ci vengo a fare, quassù?"

"A farti trombare." interviene Matteo.

"Giusto." confermo, continuando la conversazione sullo stesso piano di raffinatezza.

"Ma io ce l'ho digià il ragazzo." ribatte Stefania.

"I'cche c'entra? Noi un siamo mica gelosi." insisto, e indico prima Matteo, poi me. "E siamo anche in due, vuoi mettere?"

"No, un voglio mettere nulla." e si alza, incamminandosi verso i crostini.

"E fai male!" le grida dietro Matteo. Poi si volta verso di me e storce la bocca: "Madonna che budella!"

"Oddio, un granchè unn è mai stata, eppure qualche anno fa tu c'hai provato." gli ricordo malignamente.

Matteo ricambia e risponde alla mia punzecchiatura con una bazzookata. "L'hai vista la Giorgia?"

"Anzi," continuo, facendo finta di niente, "ora che mi ricordo, tu ci sei anche andato insieme. E tu c'hai un coraggio di nulla a apri' la bocca."

Matteo guarda nella direzione di Giorgia e gira il coltello nella piaga. "Le darei tanta di quella fava." Poi si volta verso di me in attesa di una reazione. Mi torna in mente l'immagine di un dondolo nel giardino dell'albergo, in un caldo pomeriggio estivo di alcuni anni fa. "Te, eh? ", rispondo.

Sul prato è in corso un brindisi con gli sposi, e ci aggreghiamo anche io e Matteo. Mentre siamo lì in una decina coi bicchieri alzati a vociare, due persone di fronte a me si spostano sgombrandomi la visuale, e la vedo.

C'è l'ho proprio davanti, così mi vede anche lei. Sorrido (angolo sinistro della bocca increspato in modo da socchiudere le palpebre sullo sguardo intenso) e alzo il bicchiere nella sua direzione per salutarla. Congeda il suo interlocutore e viene nella mia direzione. Eccoci all'acqua.

****

21 luglio 1984. Siamo i soliti di sempre, non c'è verso sbagliare: io, Matteo, Gianni, Giampiero e Giovanni, che ha dieci anni e viene chiamato semplicemente Nanni.

Siamo nella piazzetta davanti al Bar, dall'altisonante nome di Piazza della Vittoria: quattro panchine di ferro, tre acacie secche e una ringhiera, il resto della piazza occupato dalla terrazza del Bar, con quattro tavolini per il ventuno, un ombrellone dell'Algida e il juke-box.

Dopo la cena i villeggianti cominciano la passeggiatina serale per il paese, ovvero dal Bar alla Veranda e viceversa, con qualche puntatina all'albergo tanto per cambiare il giro. Noi lì, seduti ad un tavolo col piano tondo di granito, in attesa dell'arrivo di qualcun altro del gruppo. Poi andremo ai giardini pubblici, a rubare ciliege, o alla chiesina, alle ripe (ma lì c'è il rischio dei gavettoni da parte dei ragazzi più grandi), all'albergo, oppure resteremo al bar, chissà. Intanto si sta a sedere a contare gli spiccioli per una partita a flipper o per un disco al juke-box e a guardare chi arriva.

Su una delle panchine c'è una ragazzetta, non proprio seduta, ma raggomitolata, con le gambe piegate strette fra le braccia e la testa appoggiata sulle ginocchia. Non è brutta, coi capelli castani, i lineamenti un po' irregolari ma piacevoli, e due belle tette, per avere quei tredici-quattordici anni che dimostra. La conosco di vista, è la cugina di Giampaolo, che sta nella casa dei nonni a Le Prata, a dieci metri da casa mia. Non ci ho mai parlato, gli anni precedenti, perchè era una bambina e io invece avevo ben quattordici o addirittura quindici anni, ero un ragazzo maturo, io. Ma ora mi sembra abbastanza matura anche lei.

Dev'essere strana, però. Ogni tanto si alza di scatto, sale di corsa i tre gradini della terrazza, va al juke-box e mette una canzone, sempre la stessa. Poi torna a sedere e ascolta, triste. Una, due, tre volte. Alla quarta volta cambia giro: entra nel bar e ne esce con un ghiacciolo, un Calippo, in mano.

La guardiamo, incuriositi da tutto l'andirivieni precedente. Torna sulla panchina, che miracolosamente non è stata occupata da nessuno nel frattempo, e comincia a mangiare il suo gelato.

Ma un ghiacciolo non si mangia: si succhia, si lecca, si mordicchia, ma non si mangia. E lei succhia lecca e mordicchia, e il Calippo sembra proprio un cazzo, con quella forma cilindrica e la punta arrotondata, e io ho sedici anni e gli ormoni stanno pogando come pazzi.

"Giue!" esclamo. "Guarda quella come ciuccia."

"O chi è?" mi chiede Matteo.

"Mah! La cugina di Giampaolo, ma come si chiama proprio un lo so."

"Gli si va a chiedere!" interviene Giampiero.

"Già, e che gli si dice? 'Oh ciao, siccome ti s'è visto ciucciare il Calippo così bene, si voleva sapere come tu ti chiamavi e se tu venivi ai giardini con noi, almeno tu ci facevi una bella pipa a tutti'."

"Perchè no?" ribatte Giampiero.

Rifletto qualche secondo, poi scuoto decisamente la testa. "Naaa, e poi i miei conoscono i suoi, i su' zii, i su' nonni. No, fò una figura di merda."

Ma Giampiero, non si smonta facilmente. "Ci si manda i' Nanni" e lo indica. "E' un ragazzino, gli chiede come si chiama, quant'anni c'ha, e poi ce lo viene a dire. Poi si va noi."

Il ragionamento fila, e dopo aver dato a Giovanni tre pezzi da duecento lire come compenso, lo spediamo alla panchina. Appena arrivato comincia a parlare, poi punta il dito nella nostra direzione.

"Bravo!", fa Matteo. "Così ci si riusciva anche da soli. E gli s'è dato anche tre dugentini!"

Intanto Giovanni sta tornando a rapporto, "Allora, si chiama Giorgia, c'ha quasi tredici anni, è di Bologna e dice anche che Lorenzo queste cose le sa digià." Poi si avvia all'interno del bar per sputtanarsi i dugentini ai videogiochi. Gli altri mi guardano.

"O ragazzi", cerco di giustificarmi, stringendomi nelle spalle. "Ve l'ho detto prima. Io il nome un lo sapevo davvero."

"Ma lei il tuo lo sa."

"So una sega! Gliel'avrà detto la mi' mamma. O Giampaolo."

Ci alziamo e ci avviamo verso la panchina. Giorgia ci guarda mentre ci avviciniamo, continuando a succhiare il ghiacciolo.

Fu l'inizio di tutto.

Fili in sospeso, capitolo primo

1.

Era un paese così piccolo che non avevamo neanche lo scemo del villaggio. Dovevamo fare a turno.

(Billie Holliday)

E' il 16 luglio e per la miliardesima volta da diciotto anni a questa parte ho fatto i quasi sessanta chilometri che dividono Firenze da Castagno d'Andrea, stazione climatica a 750 metri s. l. m., come recita il cartello stradale all'inizio del paese.

Circondato dai monti, Falco, Acuto, Falterona e qualche altro cocuzzolo, che lo dividono sia dalla Romagna che dal Casentino, Castagno è un paesino come centinaia di altri sparsi sull'Appennino Toscano, che ricorda con una lapide sulla facciata di una casa il suo unico abitante famoso, il pittore rinascimentale Andrea del Castagno, e divide fra qualche decina di residenti i quattro cognomi che lo caratterizzano sull'elenco telefonico: Fossati, Ringressi, Primarti, Pretolani. L'unica cosa di cui è ricco sono le sorgenti d'acqua: fra attive, secche e quasi scomparse, un opuscolo di qualche anno fa contava centoquattro fonti che, scorrendo sotto terra, corrodendola e sgretolandola, hanno dato ai castagnini una storica familiarità con le frane ed hanno contribuito, insieme alla tranquillità e all'aria fina, a fare del paese un'attrazione turistica per anziani e giovani coppie con prole.

Ma la grande stagione turistica di Castagno d'Andrea era già finita quando i miei lo scoprirono, nel 1976. Si può dire che l'ho visto morire, questo posto.

Fra i posti che permettevano di passare la sera divertendosi, chiacchierando, ballando, intrecciando tresche che duravano un giorno, un mese e a volte una vita, quello che ancora oggi viene chiamato lo 'scialè', realizzato negli anni Sessanta in uno stile che imitava quello delle baite tirolesi, con un bel giardino e un'ampia pista da ballo all'aperto dove ci venivano a suonare i Dik Dik e l'Equipe 84, fu il primo a chiudere nel '75, trasformato in abitazione privata dai proprietari.

Il cinema parrocchiale resse fino all'inizio degli anni Ottanta, quando un piccolo incendio e soprattutto un rapido calcolo dei soldi necessari a rendere l'impianto elettrico a norma di legge convinsero don Bruno, il parroco, a chiuderlo, mentre l'albergo Falterona, l'unico del paese, chiuse nel 1987, o forse era l'88, dopo aver ospitato centinaia di anziani d'estate e i ragazzi del posto in ogni stagione, che comunque non lo avrebbero abbandonato neanche negli anni successivi, utilizzando il muretto di cinta come ritrovo notturno e il giardino incolto per farsi qualche canna o qualche ragazza.

Di tutto quello che c'era sono rimasti solo la Veranda e il Bar.

La Veranda, bar, pizzeria e qualche volta sala da ballo, nel corso degli anni ha chiuso, poi riaperto, poi richiuso ed infine, dopo il crollo del comunismo, è diventata l'unica casa del popolo intitolata all'8 dicembre, giorno della Immacolata Concezione, anche se in realtà la data si riferisce alla firma di un trattato fra Stati Uniti e Unione Sovietica per l'eliminazione dei missili nucleari.

Il Bar invece è il 'Caffè Falterona', ma nessuno lo chiama così. Ci potrebbero essere altri trecento locali del genere, ma a fregiarsi del titolo di 'Bar' nei discorsi ("Vo a i' Barre") sarebbe solo questo, nonostante sia stato abbandonato dalle generazioni più giovani, e anche da molti rappresentanti di quelle adulte, a favore della Veranda, e si accontenti da anni di avere come clienti alcuni tenaci giocatori di conchino e ancor più tenaci legioni di mosche, entrambe categorie di scarso consumo. Il Bar, o anche 'Lamberto', dal nome del proprietario, è stato il primo, e per diverso tempo il solo, locale di Castagno, e anche per la nostra generazione era, fino a qualche anno fa, il ritrovo per eccellenza, il luogo di raccolta nel quale decidere dove andare e cosa fare.

Per il resto, oltre a due chiese, quella principale nel centro del paese arricchita dagli affreschi di Annigoni e l'oratorio, più decentrato, rimangono i giardini pubblici e un po' di negozi: giornalaio, macelleria, merceria, il forno e... 'Fiammetta', ovvero frutta, verdura, salumi, pane, tabacchi, gelati, detersivi, medicine quando la farmacia ancora non c'era e qualunque altra cosa occorra in un paese col supermercato più vicino a una quindicina di chilometri.

Delle feste che animano di solito i paesi come Castagno durante l'arco dell'anno e soprattutto nei mesi estivi non è rimasto quasi nulla. Le varie sagre della ciliegia e delle castagne, le feste dell'Unità, dell'Avanti, dell'Amicizia, tutto finito, a parte la Ballottata, cioè la festa delle castagne organizzata l'ultima domenica di ottobre, rigorosamente sotto una pioggia torrenziale e in concomitanza con altre sagre simili in paesi più vicini a Firenze e meglio serviti dagli enti di promozione turistica, e il ballo in maschera del 14 agosto, ormai diventato una cosa di una tristezza abbagliante, con tre bambini in maschera che tirano i coriandoli, un volenteroso che mette nastri di Casadei e Castellina-Pasi, quattro coppie che ballano, una delle quali composte da donne, e una cinquantina di persone che guardano, si spingono e praticano lo sport nazionale castagnino: la chiacchiera maligna e, nel novantanove per cento dei casi, priva di fondamento.

I villeggianti sono diminuiti di anno in anno e ormai si vedono le solite facce di quelli che sono secoli che vengono qua e che magari ci hanno comprato anche la casa. Fra questi ci siamo anch'io e il gruppo di amici che, attraverso gli anni, fra defezioni, nuovi acquisti, fidanzati e fidanzate, si è raccolto e stabilizzato attorno ad un nucleo centrale.

Fin dai tempi dei tempi ci sono stati Matteo e suo fratello Pietro, che ormai si fa vedere raramente, e che ho conosciuto litigandoci al Bar nel luglio del '76, per non ricordo quale motivo. Il litigio sfociò in una lotta senza esclusione di colpi sulla terrazza del locale, fra il calcino e i tavolini, fino a quando l'intervento di Lamberto, che ci consigliò di continuare al campo sportivo, non ci fece effettivamente trasferire, lottatori e tifosi, al campo sportivo.

Nel corso di quella mia prima estate a Castagno conobbi anche Tommaso, che sarebbe diventato un grande cuoco, grande giocatore di calcetto e grande amico di tutti, oltre alla maggior parte dei ragazzi del paese, fra i quali Gianni, il terzo di una dinastia di Pennelli che parte dal padre e passa attraverso il fratello maggiore per arrivare fino a lui, tutti oltre il metro e novanta, e Giampiero, che nei primi anni Ottanta abbracciò lo stile di vita paninaro, tentando anche una carriera come D.J con lo pseudonimo di Danny 69, carriera che si svolse principalmente nelle feste alla Veranda e in quelle di carnevale e di fine anno che organizzavamo a Firenze.

C'erano Antonio, Giampaolo, ed altri ancora, come Andrea, detto Elettro, che ora sembra quasi si vergogni di noi, o forse si vergogna di come era quando stava con noi. Poi c'ero io: all'anagrafe Lorenzo, ma quassù Biondo, Stoppa, e qualche altro soprannome che non ha superato la prova del tempo e del quale non rimane memoria.

E le ragazze. Una delle prime ad entrare nel gruppo fu Tiziana, detta 'la marescialla' per il carattere impossibile, ormai da anni fidanzata con Tommaso che tenta, senza riuscirci, di comandare a bacchetta. Poi arrivò Luana, di Faenza, che era matta come un cavallo, si tingeva i capelli d'arancione, si incideva sulle braccia con rami appuntiti scritte tipo 'MagicaLua' e 'Forza Juve', ma aveva fatto innamorare la maggior parte di noi perchè era una delle poche ad avere le tette, e l'unica ad averle belle. Raggiunse il culmine della follia, almeno secondo noi maschi, quando si mise con Giampiero, all'epoca già paninaro estremista, per poi lentamente rinsavire fino a farci conoscere, alcuni anni fa, il suo ragazzo, Ivan, diventato subito un amico affiatato.

E poi Laura, la sorella di Elettro, detta Elettra per distinguerla da un'altra Laura ancora, e Cristina, e le due che stavano nelle roulotte a Le Prata, Grazia e Francesca (chissà che fine hanno fatto), e poi le ragazzine che ogni tanto Matteo o qualcun altro trasferiva dal vivaio che era il gruppo dei ragazzi più piccoli: Barbara, Sonia, Simona.

Le estati trascorse a Castagno con tutti loro e molti altri ancora, hanno una loro divisione in epoche, in età. La prima è l'età delle bande, quando ci dividevamo in gruppi, con rifugi costruiti nei boschi e rapidamente smantellati dalle bande avversarie, gesto estremo di spregio che portava a sanguinose guerre con prigionieri torturati con l'ortica, sassaiole e scontri frontali ai giardini pubblici.

La seconda epoca, collocabile dai quindici ai venti-ventidue anni, è l'età della 'cicala', in pratica l'adolescenza, caratterizzata da una iniziale scoperta delle ragazze come dispensatrici di dolori e di piacere e non soltanto come tirassegno per sassi e gavettoni, da un periodo di mezzo con ripetuti tentativi con l'una o l'altra ragazza, e da un periodo finale, con le prime coppie stabili, che avrebbe fatto scivolare il gruppo, senza accorgersene, nella terza epoca, quella odierna, priva di una caratteristica che la contraddistingua se non la consapevolezza che il periodo della mancanza di preoccupazioni serie è finito.

Nel corso degli anni siamo stati così il gruppo dei "bambini", poi i "pischelli", infine "quelli grandi", ogni volta lasciando ad altri, come era successo con quelli che ci avevano preceduto, il nome e la rispettiva posizione in questa piramide sociale, ed ogni volta perdendo qualcuno per strada, con maggiore o minor rimpianto, se non con gioia.

Oggi, amici di una vita e di più fresca data sono presenti, insieme a tutti gli abitanti del paese rigorosamente col vestito della festa, al matrimonio di Carlo e Cristina, due di quelli che fino a pochi anni fa ci consideravano pischelli e che ora passano il tempo con noi.

La cerimonia si tiene all'oratorio, più piccolo e raccolto della chiesa centrale, con cinque gradini che portano in un piccolo portico quadrato sul quale si apre la porta della chiesa, una sola navatina con poche panche, due confessionali e in fondo l'altare.

Il portico della chiesina è da sempre uno dei luoghi di sosta notturni più ambiti, insieme al muretto di cinta dell'albergo e alle ripe accanto al cimitero, per poter chiacchierare, bere, conoscersi e lasciarsi, ridere, scherzare e tirare anche qualche moccolo. Ora è pieno fino all'inverosimile di gente in giacca e cravatta, con in mano il riso, ma anche spaghetti, penne e rigatoni, da tirare agli sposi.

Io, Gianni, Tommaso e Matteo siamo sul muretto del portico, appoggiati precariamente alle colonne e alle schiene della gente sotto di noi, in attesa, col riso e gli spaghetti spezzettati che scivolano dalle mani sudate. Scruto attentamente la calca attorno all'entrata della chiesa, fingendo di aspettare il momento dell'uscita degli sposi, in realtà cercando di scorgere Giorgia.

La funzione è finita, la gente comincia a uscire ('Dov'è?') e si aggiunge a quella sotto il portico ('Non la vedo.') mentre gli sposi, all'interno dell'oratorio, fanno le ultime foto ('Eppure ci dev'essere'). Arrivano gli sposi e parte il riso, la pasta, urli, fischi ('E' quella? No.'), Tommaso suona la campana, e Gianni, accanto a me, mi urla in un orecchio: "Oh, l'hai vista? Te l'avevo detto che c'era."

"Dove?"

"Laggiù", e indica un punto in mezzo alla calca del portico. E' una ragazza di spalle, riccioli lunghi e biondi. ('Biondi? Lunghi?')

"Oh Pennello, ma che sei sicuro?"

"Camadò!"

Sì, è sicuro.

giovedì, ottobre 05, 2006

Fili in sospeso, prologo

9 luglio 1994

Il tempo presente è racchiuso nel tempo passato.

(Ian McEwan)


Sei bottiglie di vino e tre di vodka vuote sul tavolo, in mezzo a piatti, posate, bicchieri e tazzine da caffè. Non c'è male, anche se le bottiglie di vodka erano tutte oltre la metà quando la cameriera ce le ha portate.

Seduti davanti a questa distesa di stoviglie sporche e bottiglie vuote, a discutere del più grande mistero del creato, le donne, siamo sette uomini e cinque o sei grandi misteri del creato, che invece stanno parlando del matrimonio di Carlo e Cristina sabato prossimo, il 16 luglio, e di chi ci sarà e se la casa è a posto e di come ci si deve vestire e altri bla bla del genere.

La nostra conversazione, oltre a toccare argomenti molto più terreni, è rallentata dall'alcol e dalle risate, e da quando si è spostata sul calcio non riesco più a seguirla.

Sto fissando da qualche minuto la testa di cervo appesa al muro della pizzeria quando Carlo, il promesso sposo, anche lui stanco di sentir parlare di campionato e della Fiorentina che un altr'anno la coppa UEFA e fra due lo scudetto, mi dà di gomito su un braccio per attirare la mia attenzione. "Oh. Lorenzo."

"Oh?""

"Al matrimonio c'è anche la Giorgia."

"Ah, bene." rispondo, "Sarà quattr'anni che un la vedo." Mi verso un po' d'acqua nel bicchiere e bevo, così da costringere Carlo a voltarsi per cambiare interlocutore. Poso il bicchiere e mi appoggio al tavolo con i gomiti, fingendo di ascoltare la conversazione.

'Giorgia. Beh, per forza, la Cristina è sua cugina', penso.

L'ultimo contatto con lei è stato a settembre dell'anno scorso. Mi ha telefonato, dopo più di tre anni.

Sto uscendo di casa e DRIN!, squilla il telefono. "Mamma, rispondi te. Se mi cercano sono morto mi hanno cremato e hanno buttato le ceneri in Arno. Chiunque sia."

"Pronto?" risponde mia madre, mentre io, mano sulla maniglia della porta, aspetto per sentire chi è.

"Oh, ciao Giorgia. Sì, sì, Lorenzo è quì sulla porta, stava...." Allontano mia madre dal telefono e prendo la cornetta. "Ciao, sono Lorenzo", inghiottisco a vuoto e cerco di continuare. "Come va?"

"Ciao." E' proprio lei. "Non ti ricordi più degli amici?" continua.

"Certo che ricordo." le rispondo, "Non credevo ricordassi te." Bel discorso a bischero. Del resto, dopo tre anni mi telefona LEI mentre sto per uscire, è logico essere un po' impreparati.

Dopo questa bella frase storica passo mezz'ora al telefono, come ai vecchi tempi, solo che non sono i vecchi tempi, e così mi racconta che in quei giorni ha riletto i suoi vecchi diari le è venuta voglia di sentirmi e come va e come non va ma risentiamoci non aspettiamo altri tre anni saluti e baci ciao clic.

'Bene.' penso, mentre ricordo la telefonata seduto al tavolo del ristorante. 'E io che quando sono sveglio riesco quasi a convincermi di averla dimenticata, invece quella legge i diari e telefona, poi saluta, riattacca, esce col tipo e grazie di tutto. Sì, grazie al cazzo! E ora viene anche al matrimonio.'

Attorno a me voci e risate, dapprima indistinte, poi sempre più chiare man mano che riemergo dai ricordi: "...allora, si va? Chiama la cameriera, s'ha da pagare... ..'ndo' si va? Biondo? Oh Biondo!...".

"Oh! Che c'è?" rispondo.

"C'è che sono trentatremila a cranio." mi dice qualcuno.

Mi alzo dalla sedia per prendere il portafogli ma mi gira la testa, la stanza, il tavolo.

Soprattutto mi girano i coglioni.

Ok, ho deciso....

Ok, ho deciso...

L'avevo scritto nel post del 3 luglio, di quel lungo racconto che avevo messo anni fa nel primo blog che avevo aperto.
Dal prossimo post, lo ripubblico anche su questo.
Perchè?
Due motivi:
- mi dispiace far languire il blog, e con poca spesa (di copincolla) lo tiro avanti per un po';
- son curioso di vedere cosa capita a rimetterlo su internet... magari qualche altro dei protagonisti lo ritrova casualmente come successo quattro anni fa!

Ovvia, si riparte.

P.S.: abbiate pietà. è roba scritta quasi 12 anni fa.....