mercoledì, ottobre 18, 2006

Fili in sospeso, capitolo primo

1.

Era un paese così piccolo che non avevamo neanche lo scemo del villaggio. Dovevamo fare a turno.

(Billie Holliday)

E' il 16 luglio e per la miliardesima volta da diciotto anni a questa parte ho fatto i quasi sessanta chilometri che dividono Firenze da Castagno d'Andrea, stazione climatica a 750 metri s. l. m., come recita il cartello stradale all'inizio del paese.

Circondato dai monti, Falco, Acuto, Falterona e qualche altro cocuzzolo, che lo dividono sia dalla Romagna che dal Casentino, Castagno è un paesino come centinaia di altri sparsi sull'Appennino Toscano, che ricorda con una lapide sulla facciata di una casa il suo unico abitante famoso, il pittore rinascimentale Andrea del Castagno, e divide fra qualche decina di residenti i quattro cognomi che lo caratterizzano sull'elenco telefonico: Fossati, Ringressi, Primarti, Pretolani. L'unica cosa di cui è ricco sono le sorgenti d'acqua: fra attive, secche e quasi scomparse, un opuscolo di qualche anno fa contava centoquattro fonti che, scorrendo sotto terra, corrodendola e sgretolandola, hanno dato ai castagnini una storica familiarità con le frane ed hanno contribuito, insieme alla tranquillità e all'aria fina, a fare del paese un'attrazione turistica per anziani e giovani coppie con prole.

Ma la grande stagione turistica di Castagno d'Andrea era già finita quando i miei lo scoprirono, nel 1976. Si può dire che l'ho visto morire, questo posto.

Fra i posti che permettevano di passare la sera divertendosi, chiacchierando, ballando, intrecciando tresche che duravano un giorno, un mese e a volte una vita, quello che ancora oggi viene chiamato lo 'scialè', realizzato negli anni Sessanta in uno stile che imitava quello delle baite tirolesi, con un bel giardino e un'ampia pista da ballo all'aperto dove ci venivano a suonare i Dik Dik e l'Equipe 84, fu il primo a chiudere nel '75, trasformato in abitazione privata dai proprietari.

Il cinema parrocchiale resse fino all'inizio degli anni Ottanta, quando un piccolo incendio e soprattutto un rapido calcolo dei soldi necessari a rendere l'impianto elettrico a norma di legge convinsero don Bruno, il parroco, a chiuderlo, mentre l'albergo Falterona, l'unico del paese, chiuse nel 1987, o forse era l'88, dopo aver ospitato centinaia di anziani d'estate e i ragazzi del posto in ogni stagione, che comunque non lo avrebbero abbandonato neanche negli anni successivi, utilizzando il muretto di cinta come ritrovo notturno e il giardino incolto per farsi qualche canna o qualche ragazza.

Di tutto quello che c'era sono rimasti solo la Veranda e il Bar.

La Veranda, bar, pizzeria e qualche volta sala da ballo, nel corso degli anni ha chiuso, poi riaperto, poi richiuso ed infine, dopo il crollo del comunismo, è diventata l'unica casa del popolo intitolata all'8 dicembre, giorno della Immacolata Concezione, anche se in realtà la data si riferisce alla firma di un trattato fra Stati Uniti e Unione Sovietica per l'eliminazione dei missili nucleari.

Il Bar invece è il 'Caffè Falterona', ma nessuno lo chiama così. Ci potrebbero essere altri trecento locali del genere, ma a fregiarsi del titolo di 'Bar' nei discorsi ("Vo a i' Barre") sarebbe solo questo, nonostante sia stato abbandonato dalle generazioni più giovani, e anche da molti rappresentanti di quelle adulte, a favore della Veranda, e si accontenti da anni di avere come clienti alcuni tenaci giocatori di conchino e ancor più tenaci legioni di mosche, entrambe categorie di scarso consumo. Il Bar, o anche 'Lamberto', dal nome del proprietario, è stato il primo, e per diverso tempo il solo, locale di Castagno, e anche per la nostra generazione era, fino a qualche anno fa, il ritrovo per eccellenza, il luogo di raccolta nel quale decidere dove andare e cosa fare.

Per il resto, oltre a due chiese, quella principale nel centro del paese arricchita dagli affreschi di Annigoni e l'oratorio, più decentrato, rimangono i giardini pubblici e un po' di negozi: giornalaio, macelleria, merceria, il forno e... 'Fiammetta', ovvero frutta, verdura, salumi, pane, tabacchi, gelati, detersivi, medicine quando la farmacia ancora non c'era e qualunque altra cosa occorra in un paese col supermercato più vicino a una quindicina di chilometri.

Delle feste che animano di solito i paesi come Castagno durante l'arco dell'anno e soprattutto nei mesi estivi non è rimasto quasi nulla. Le varie sagre della ciliegia e delle castagne, le feste dell'Unità, dell'Avanti, dell'Amicizia, tutto finito, a parte la Ballottata, cioè la festa delle castagne organizzata l'ultima domenica di ottobre, rigorosamente sotto una pioggia torrenziale e in concomitanza con altre sagre simili in paesi più vicini a Firenze e meglio serviti dagli enti di promozione turistica, e il ballo in maschera del 14 agosto, ormai diventato una cosa di una tristezza abbagliante, con tre bambini in maschera che tirano i coriandoli, un volenteroso che mette nastri di Casadei e Castellina-Pasi, quattro coppie che ballano, una delle quali composte da donne, e una cinquantina di persone che guardano, si spingono e praticano lo sport nazionale castagnino: la chiacchiera maligna e, nel novantanove per cento dei casi, priva di fondamento.

I villeggianti sono diminuiti di anno in anno e ormai si vedono le solite facce di quelli che sono secoli che vengono qua e che magari ci hanno comprato anche la casa. Fra questi ci siamo anch'io e il gruppo di amici che, attraverso gli anni, fra defezioni, nuovi acquisti, fidanzati e fidanzate, si è raccolto e stabilizzato attorno ad un nucleo centrale.

Fin dai tempi dei tempi ci sono stati Matteo e suo fratello Pietro, che ormai si fa vedere raramente, e che ho conosciuto litigandoci al Bar nel luglio del '76, per non ricordo quale motivo. Il litigio sfociò in una lotta senza esclusione di colpi sulla terrazza del locale, fra il calcino e i tavolini, fino a quando l'intervento di Lamberto, che ci consigliò di continuare al campo sportivo, non ci fece effettivamente trasferire, lottatori e tifosi, al campo sportivo.

Nel corso di quella mia prima estate a Castagno conobbi anche Tommaso, che sarebbe diventato un grande cuoco, grande giocatore di calcetto e grande amico di tutti, oltre alla maggior parte dei ragazzi del paese, fra i quali Gianni, il terzo di una dinastia di Pennelli che parte dal padre e passa attraverso il fratello maggiore per arrivare fino a lui, tutti oltre il metro e novanta, e Giampiero, che nei primi anni Ottanta abbracciò lo stile di vita paninaro, tentando anche una carriera come D.J con lo pseudonimo di Danny 69, carriera che si svolse principalmente nelle feste alla Veranda e in quelle di carnevale e di fine anno che organizzavamo a Firenze.

C'erano Antonio, Giampaolo, ed altri ancora, come Andrea, detto Elettro, che ora sembra quasi si vergogni di noi, o forse si vergogna di come era quando stava con noi. Poi c'ero io: all'anagrafe Lorenzo, ma quassù Biondo, Stoppa, e qualche altro soprannome che non ha superato la prova del tempo e del quale non rimane memoria.

E le ragazze. Una delle prime ad entrare nel gruppo fu Tiziana, detta 'la marescialla' per il carattere impossibile, ormai da anni fidanzata con Tommaso che tenta, senza riuscirci, di comandare a bacchetta. Poi arrivò Luana, di Faenza, che era matta come un cavallo, si tingeva i capelli d'arancione, si incideva sulle braccia con rami appuntiti scritte tipo 'MagicaLua' e 'Forza Juve', ma aveva fatto innamorare la maggior parte di noi perchè era una delle poche ad avere le tette, e l'unica ad averle belle. Raggiunse il culmine della follia, almeno secondo noi maschi, quando si mise con Giampiero, all'epoca già paninaro estremista, per poi lentamente rinsavire fino a farci conoscere, alcuni anni fa, il suo ragazzo, Ivan, diventato subito un amico affiatato.

E poi Laura, la sorella di Elettro, detta Elettra per distinguerla da un'altra Laura ancora, e Cristina, e le due che stavano nelle roulotte a Le Prata, Grazia e Francesca (chissà che fine hanno fatto), e poi le ragazzine che ogni tanto Matteo o qualcun altro trasferiva dal vivaio che era il gruppo dei ragazzi più piccoli: Barbara, Sonia, Simona.

Le estati trascorse a Castagno con tutti loro e molti altri ancora, hanno una loro divisione in epoche, in età. La prima è l'età delle bande, quando ci dividevamo in gruppi, con rifugi costruiti nei boschi e rapidamente smantellati dalle bande avversarie, gesto estremo di spregio che portava a sanguinose guerre con prigionieri torturati con l'ortica, sassaiole e scontri frontali ai giardini pubblici.

La seconda epoca, collocabile dai quindici ai venti-ventidue anni, è l'età della 'cicala', in pratica l'adolescenza, caratterizzata da una iniziale scoperta delle ragazze come dispensatrici di dolori e di piacere e non soltanto come tirassegno per sassi e gavettoni, da un periodo di mezzo con ripetuti tentativi con l'una o l'altra ragazza, e da un periodo finale, con le prime coppie stabili, che avrebbe fatto scivolare il gruppo, senza accorgersene, nella terza epoca, quella odierna, priva di una caratteristica che la contraddistingua se non la consapevolezza che il periodo della mancanza di preoccupazioni serie è finito.

Nel corso degli anni siamo stati così il gruppo dei "bambini", poi i "pischelli", infine "quelli grandi", ogni volta lasciando ad altri, come era successo con quelli che ci avevano preceduto, il nome e la rispettiva posizione in questa piramide sociale, ed ogni volta perdendo qualcuno per strada, con maggiore o minor rimpianto, se non con gioia.

Oggi, amici di una vita e di più fresca data sono presenti, insieme a tutti gli abitanti del paese rigorosamente col vestito della festa, al matrimonio di Carlo e Cristina, due di quelli che fino a pochi anni fa ci consideravano pischelli e che ora passano il tempo con noi.

La cerimonia si tiene all'oratorio, più piccolo e raccolto della chiesa centrale, con cinque gradini che portano in un piccolo portico quadrato sul quale si apre la porta della chiesa, una sola navatina con poche panche, due confessionali e in fondo l'altare.

Il portico della chiesina è da sempre uno dei luoghi di sosta notturni più ambiti, insieme al muretto di cinta dell'albergo e alle ripe accanto al cimitero, per poter chiacchierare, bere, conoscersi e lasciarsi, ridere, scherzare e tirare anche qualche moccolo. Ora è pieno fino all'inverosimile di gente in giacca e cravatta, con in mano il riso, ma anche spaghetti, penne e rigatoni, da tirare agli sposi.

Io, Gianni, Tommaso e Matteo siamo sul muretto del portico, appoggiati precariamente alle colonne e alle schiene della gente sotto di noi, in attesa, col riso e gli spaghetti spezzettati che scivolano dalle mani sudate. Scruto attentamente la calca attorno all'entrata della chiesa, fingendo di aspettare il momento dell'uscita degli sposi, in realtà cercando di scorgere Giorgia.

La funzione è finita, la gente comincia a uscire ('Dov'è?') e si aggiunge a quella sotto il portico ('Non la vedo.') mentre gli sposi, all'interno dell'oratorio, fanno le ultime foto ('Eppure ci dev'essere'). Arrivano gli sposi e parte il riso, la pasta, urli, fischi ('E' quella? No.'), Tommaso suona la campana, e Gianni, accanto a me, mi urla in un orecchio: "Oh, l'hai vista? Te l'avevo detto che c'era."

"Dove?"

"Laggiù", e indica un punto in mezzo alla calca del portico. E' una ragazza di spalle, riccioli lunghi e biondi. ('Biondi? Lunghi?')

"Oh Pennello, ma che sei sicuro?"

"Camadò!"

Sì, è sicuro.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Biondo riesci sempre a commuovermi, anche se con me basta poco, però leggere le tue parole mi ha fatto rivivere momenti così belli e spensierati che non torneranno più......
Mi auguro che riuscirai a finire questa tua opera, e credo che se vorrai, nessuno di noi si tirerà indietro per darti una mano.
Grazie per quello che hai scritto, sei veramente un grande amico.
Tonio.