Nel 1995 comprai il mio primo computer. Era un favoloso 386, che mi serviva fondamentalmente per preparare la tesi di laurea.Mentre pasticciavo la tesi mi punse vaghezza di scrivere qualcosa per me. Avevo bisogno di sputare fuori un lungo pezzo di passato, per liberarmene. E lo feci.Poi mi venne in mente un'altra storia. E iniziai anche quella. Buttai giù un soggetto, ed un primo capitolo.E basta.Quindi la storia non solo rimase senza titolo (appunto), ma anche senza seguito.Quando qualche anno fa sbucarono fuori dal nulla i blog e ne registrai uno, postai, oltre alla lunga storia che doveva restare solo mia, anche questo primo capitolo rimasto là, a chiedere un seguito.
Ma forse, bene o male, regge anche da solo, come racconto.
Qualche settimana fa ho raccontato ad Alessio (Dual) la trama di quella storia, un misto tra “Lègami” di Almodovar e “Misery” di Stephen King, e gli è piaciuta. Secondo lui dovrei farne una sceneggiatura per un fumetto, o comunque continuarla.
Mah..
Chissà…
Intanto, questo sotto è quel famoso primo ed unico capitolo di una storia che ha come titolo quello che obbligatoriamente ho dovuto mettere per salvare il file: WIP (work in progress).
1.
La morte dei suoi genitori era stata una vera fortuna. Negli ultimi anni l'aveva desiderata e immaginata in molti modi, a volte architettandone anche qualcuno, accantonando l'idea quando arrivava al punto cruciale della sua fantasia: la paura di venire preso.
Quella morte tanto attesa si era poi presentata con il volto scontato di un incidente d'auto, liberandolo da quelle due presenze asfissianti che gli ricordavano ogni momento, anche soltanto con la loro presenza, il suo fallimento: l'università non finita, il lavoro insoddisfacente, l'assenza di una relazione stabile con una donna. Un camionista ubriaco aveva dato un colpo di spugna a tutto quanto, e quel rigo scritto sulle polizze vita dei suoi genitori, "beneficiario coniuge in difetto figlio Carlo", lo aveva reso padrone di oltre trecento milioni di lire e della possibilità di realizzare il sogno che lo aveva fatto arrivare a trent'anni: il Vero Amore.
Ed ora era là, sotto casa di Claudia, che non vedeva da quattro anni, ma che avrebbe capito tutto appena lo avesse visto, dimenticando il marito e il bambino di un anno che la aspettavano nel loro appartamento.
Era una sera fredda e nebbiosa, e la strada del quartiere tranquillo dove viveva Claudia, già poco trafficata normalmente, era deserta. L'ora di cena era già passata, e con una serata come quella quasi nessuno si sarebbe avventurato fuori di casa, neanche i giovani, visto che era lunedì e i locali erano quasi tutti chiusi.
Soltanto lei, Claudia, sarebbe uscita, come tutti i lunedì sera, per andare in parrocchia alla riunione del gruppo di catechismo di cui faceva parte. E allora lui, sbucando dall'ombra nella quale si nascondeva da un'ora, l'avrebbe chiamata e lei, voltandosi e riconoscendolo, sarebbe rimasta dapprima stupita, meravigliata, poi gli avrebbe sorriso, e lui, avvicinandosi, le avrebbe fatto capire che la loro strana storia d'amore, bruscamente interrotta quattro anni prima, sarebbe ricominciata per arrivare alla felice conclusione che entrambi desideravano.
Le fantasticherie di Carlo furono interrotte dall'accendersi della luce nell'atrio del palazzo dove abitava Claudia: erano le ventuno e quaratacinque, lei aveva appena chiuso la porta di casa e si preparava a scendere le scale per uscire e andare in parrocchia. Dopo mezzo minuto Carlo vide aprirsi il portone del palazzo e, disegnata dalla luce all'interno, stagliarsi la sagoma di Claudia. Come lei fece per avviarsi all'automobile Carlo la chiamò: "Claudia!". Lei si fermò stupita e si voltò in direzione della voce. Dopo aver studiato la figura che le si stava avvicinando riconobbe che era Carlo, e gli sorrise con un misto di meraviglia e allegria. Anche lui le sorrideva felice e, appena furono vicini, la tramortì con un pugno in faccia avvicinandole contemporaneamente alla bocca e al naso un tampone impregnato di narcotico.
Claudia, che non era riuscita a gridare, si dibattè per un po' nella morsa in cui l'aveva stretta Carlo, finché il narcotico non fece effetto e perse i sensi. Carlo la trascinò con fatica verso il portabagagli aperto della sua automobile, la buttò dentro come un sacco di patate, richiuse, salì in macchina e mise in moto, sempre sorridendo felice.
6 commenti:
Ma ti sei impazzito a pubblicarlo così?
Fila a scriverne una versione "a quadretti"! :)
Grazie del complimento, jelem.
Sai che questo tuo commento verrà usato da dual contro di me, eh?
"visto? te l'ha detto anche Jelem!" :)
mai avrei pensato di poter essere COSì TANTO d'accordo con un siciliano a un passo dagli anta e - per di più - jubentino!
L'avevo letto a suo tempo, e m'era piaciuto!
Ma quando lo continui?
Visto? Te l'ha detto anche jelem!
@peter putter: sorry, esiste solo l'altro racconto luuungo di cui parlo ad inizio post (che forse riposterò "a puntate").
Poesie? Al liceo ho scritto alcune poesie goliardiche troppo legate al contesto, quindi niente da fare. :)
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