Un veloce giro su giornali e blog prima di cominciare a lavorare, e leggo che Sergio Bonelli è morto.
Non lo conoscevo di persona, ma c'è poco da dire: chi lavora in questo settore lo deve anche a lui. Tutti noi abbiamo cominciato ad appassionarci ai fumetti anche grazie alle storie che pubblicava. C'è chi poi ha smesso di seguire le pubblicazioni di Bonelli, chi ha continuato, chi ha iniziato a lavorare per lui. Ma è inutile negare che tutti abbiamo iniziato con Tex, Zagor, Mister No, e tutti gli altri personaggi.
Mi spiace davvero.
E' una brutta giornata.
Addio, Sergio. E grazie di tutto.
lunedì, settembre 26, 2011
venerdì, dicembre 03, 2010
In questo momento sei il capo di due sole cose...
...del cazzo e della merda, e anche di quelli per poco.
Capisco che le forze dell'ordine debbano comunque garantire l'ordine pubblico.
Capisco anche che a Brescia quel giorno ci fosse anche un gruppettino di quelli che vengono cbhiamati "facinorosi" e che in realtà sono enoormi teste di cazzo.
Capisco che non tutti i funzionari di pubblica sicurezza siano dei completi imbecilli.
Ma...
Nel video non ci sono facinorosi.
Nel video è il vicequestore EMANUELE RICIFARI (pregasi diffondere nome e cognome dove possibile) che cerca di creare lo scontro a tutti i costi, ordinando ai poliziotti di caricare (e all'inizio neanche lo considerano) e strattonando il tizio per portarlo via (dice che funziona così: non è un arresto, ti portano solo in questura per chiederti le generalità. Strattonandoti e trattandoti come un serial killer...).
Mi chiedo poi quale sia la pericolosità sociale di un tizio con la coppola a scacchi in testa. L'unico reato che gli possono imputare è quello di "attentato all'estetica".
Capisco che le forze dell'ordine debbano comunque garantire l'ordine pubblico.
Capisco anche che a Brescia quel giorno ci fosse anche un gruppettino di quelli che vengono cbhiamati "facinorosi" e che in realtà sono enoormi teste di cazzo.
Capisco che non tutti i funzionari di pubblica sicurezza siano dei completi imbecilli.
Ma...
Nel video non ci sono facinorosi.
Nel video è il vicequestore EMANUELE RICIFARI (pregasi diffondere nome e cognome dove possibile) che cerca di creare lo scontro a tutti i costi, ordinando ai poliziotti di caricare (e all'inizio neanche lo considerano) e strattonando il tizio per portarlo via (dice che funziona così: non è un arresto, ti portano solo in questura per chiederti le generalità. Strattonandoti e trattandoti come un serial killer...).
Mi chiedo poi quale sia la pericolosità sociale di un tizio con la coppola a scacchi in testa. L'unico reato che gli possono imputare è quello di "attentato all'estetica".
giovedì, novembre 18, 2010
Riattaccate 'sto cazzo, cribbio!
Stamani su Repubblica...
Le statue truccate di Palazzo Chigi
mani e pene posticci a Venere e Marte
ROMA - Venere ha riacquistato entrambe le mani. Marte, insieme alla destra, anche il pene perduto da tempo. Miracolo a Palazzo Chigi. Per espressa volontà di Silvio Berlusconi. E in barba alle regole del restauro che vietano ripristini e falsi storici che alterino l'autenticità dell'opera d'arte.
Il celebre gruppo marmoreo, con i ritratti romani di Marco Aurelio e della moglie Faustina innestati sui corpi "greci" degli dei dell'Olimpo, è stato sottoposto a un intervento di chirurgia estetica che rischia di avere pesanti riflessi negativi sulla scultura del 175 dopo Cristo. E sull'immagine della scuola dei restauratori italiani nel mondo. Così, dopo le polemiche per lo spostamento dal Museo delle Terme di Diocleziano a Palazzo Chigi, una nuova bufera sta per abbattersi sui preziosi 1.400 chili di marmo.
Su espressa richiesta del presidente del Consiglio, e su insistenti pressioni del suo architetto Mario Catalano, il ministero dei Beni culturali ha portato a termine un'operazione di "risarcimento" delle parti mancanti della scultura classica che, ritrovata nel 1918 a Ostia, si trova da quest'anno in prestito nella sede del governo. Una scelta che contrasta con la virtuosa via italiana al restauro filologico. E che cozza con l'attuale regime di austerity che il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi e quello dell'Economia Tremonti hanno imposto alla tutela del patrimonio artistico (-46% i fondi per il 2011): è vero che le spese per il restyling sono a carico della presidenza del Consiglio, ma quei 70mila euro potevano tamponare un intervento di massima urgenza nell'Italia delle mille Pompei che franano invece di essere spesi per un maquillage.
"Perché in Cina le sculture appaiono come nuove mentre alle nostre mancano braccia e teste? Completate quelle statue" avrebbe detto il premier all'architetto Catalano dopo essersi visto consegnare, il 25 febbraio, il Gruppo di Marte e Venere, la Statua di Ercole con cornucopia e la Statuetta femminile panneggiata e velata, provenienti dall'aula V del Museo delle Terme di Diocleziano a Roma, già ripuliti in vista del prestito. È stato così che, mentre la "Velata" andava ad abbellire l'appartamento del presidente del Consiglio a palazzo Chigi, il marmo d'età antonina veniva esibito nel cortile d'onore durante la visita del premier cinese Wen Jiabao del 7 ottobre e facendo finta che il tempo non è passato sui corpi delle due imperiali divinità, mutilandole.
mapputanama...
porco...
diocristodun...
Sempre più tempi bui. Lo sfascio culturale provocato all'Italia e agli italiani (che non sono mai stati un granché, questo va detto), sarà il peggior lascito di questo nano impazzito. Ci sarà tanto da lavorare, tantissimo.
Nel frattempo, "fatevi un bel panino con la Divina Commedia".
Le statue truccate di Palazzo Chigi
mani e pene posticci a Venere e Marte
ROMA - Venere ha riacquistato entrambe le mani. Marte, insieme alla destra, anche il pene perduto da tempo. Miracolo a Palazzo Chigi. Per espressa volontà di Silvio Berlusconi. E in barba alle regole del restauro che vietano ripristini e falsi storici che alterino l'autenticità dell'opera d'arte.
Il celebre gruppo marmoreo, con i ritratti romani di Marco Aurelio e della moglie Faustina innestati sui corpi "greci" degli dei dell'Olimpo, è stato sottoposto a un intervento di chirurgia estetica che rischia di avere pesanti riflessi negativi sulla scultura del 175 dopo Cristo. E sull'immagine della scuola dei restauratori italiani nel mondo. Così, dopo le polemiche per lo spostamento dal Museo delle Terme di Diocleziano a Palazzo Chigi, una nuova bufera sta per abbattersi sui preziosi 1.400 chili di marmo.
Su espressa richiesta del presidente del Consiglio, e su insistenti pressioni del suo architetto Mario Catalano, il ministero dei Beni culturali ha portato a termine un'operazione di "risarcimento" delle parti mancanti della scultura classica che, ritrovata nel 1918 a Ostia, si trova da quest'anno in prestito nella sede del governo. Una scelta che contrasta con la virtuosa via italiana al restauro filologico. E che cozza con l'attuale regime di austerity che il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi e quello dell'Economia Tremonti hanno imposto alla tutela del patrimonio artistico (-46% i fondi per il 2011): è vero che le spese per il restyling sono a carico della presidenza del Consiglio, ma quei 70mila euro potevano tamponare un intervento di massima urgenza nell'Italia delle mille Pompei che franano invece di essere spesi per un maquillage.
"Perché in Cina le sculture appaiono come nuove mentre alle nostre mancano braccia e teste? Completate quelle statue" avrebbe detto il premier all'architetto Catalano dopo essersi visto consegnare, il 25 febbraio, il Gruppo di Marte e Venere, la Statua di Ercole con cornucopia e la Statuetta femminile panneggiata e velata, provenienti dall'aula V del Museo delle Terme di Diocleziano a Roma, già ripuliti in vista del prestito. È stato così che, mentre la "Velata" andava ad abbellire l'appartamento del presidente del Consiglio a palazzo Chigi, il marmo d'età antonina veniva esibito nel cortile d'onore durante la visita del premier cinese Wen Jiabao del 7 ottobre e facendo finta che il tempo non è passato sui corpi delle due imperiali divinità, mutilandole.
mapputanama...
porco...
diocristodun...
Sempre più tempi bui. Lo sfascio culturale provocato all'Italia e agli italiani (che non sono mai stati un granché, questo va detto), sarà il peggior lascito di questo nano impazzito. Ci sarà tanto da lavorare, tantissimo.
Nel frattempo, "fatevi un bel panino con la Divina Commedia".
sabato, novembre 13, 2010
Una prova giovanile di traduzione: Il ponte del Troll, di Neil Gaiman.
Circa diciassette anni fa cercai di allenare il mio inglese traducendo un racconto di Neil Gaiman pubblicato su Previews come anticipazione della sua antologia "Angels & Visitations". Ecco il risultato.
nota: le illustrazioni sono di Mark Buckingham, e sono state pubblicate nel 1994 insieme al racconto originale sul numero 30 di Comic's World.
IL PONTE DEL TROLL
I.
Tolsero la maggior parte dei binari della ferrovia nei primi anni '60, quando avevo tre o quattro anni. Ridussero i servizi ferroviari a brandelli, così non rimase nessun altro posto dove andare tranne Londra, e la cittadina dove vivevo divenne il capolinea.
Il mio primo ricordo sicuro: a diciotto mesi, mia madre all'ospedale in attesa di mia sorella, e mia nonna che cammina con me su un ponte e mi solleva per guardare il treno al di sotto, che ansima e fuma come un drago nero di ferro.
Nei pochi anni seguenti sparirono le ultime locomotive, e con loro la rete di binari che univa villaggio a villaggio, città a città. Non sapevo che i treni stavano scomparendo. Quando avevo sette anni facevano già parte del passato.
Vivevamo in una vecchia casa ai confini della città. I campi di fronte erano disabitati ed incolti, e mi piaceva scalare la staccionata, sdraiarmi all'ombra dei giunchi e leggere, oppure, quando mi sentivo più avventuroso, esplorare il terreno attorno alla villa disabitata al di là dei campi. C'era uno stagnetto pieno di erbacce, con sopra un ponticello di legno.
Non avevo mai visto guardiani nelle mie scorrerie attraverso boschi e prati, ma non mi ero mai azzardato ad entrare nella villa. Questo voleva dire andare in cerca di guai, e poi ero sicuro che tutte le vecchie case disabitate fossero infestate dai fantasmi.
Non ero uno sciocco, credevo soltanto in tutte le cose oscure e pericolose: faceva parte delle mie convinzioni giovanili la certezza che la notte fosse popolata da fantasmi e da streghe affamate, svolazzanti e vestite di nero. Il contrario era altrettanto vero in modo rassicurante: la luce del giorno era la salvezza. Il giorno significava sempre salvezza.
Un rito: l'ultimo giorno di scuola, tornando a casa, mi toglievo scarpe e calzini e, tenendoli in mano, camminavo a piedi scalzi sul viottolo duro e sassoso. Durante le vacanze mi mettevo le scarpe soltanto con la forza, finché la scuola non ricominciava un'altra volta, a settembre.
A sette anni scopersi il sentiero attraverso il bosco: era un'estate calda e luminosa, e quel giorno mi ero allontanato molto da casa.
Ero in esplorazione. Ero andato oltre la villa e le sue finestre cieche, chiuse con le assi, attraverso campi e boschi sconosciuti. Mi ero calato da un'altura scoscesa, trovandomi su un sentiero che non conoscevo, ombroso e coperto dagli alberi. Attraverso le foglie penetrava una luce verde e oro, e pensai di essere arrivato nel paese delle fate. Un ruscello gocciolava su un lato del sentiero, brulicante di piccolissimi gamberetti trasparenti. Ne tirai un po' su con le mani e li guardai sussultare e girare sulle dita. Poi li ributtai dentro.
Vagavo sul sentiero. Era perfettamente diritto e coperto da erba bassa. Ogni tanto trovavo delle pietre veramente straordinarie, marroni e porpora e nere, fuse e piene di bolle. Mettendole in controluce potevo vedere tutti i colori dell'arcobaleno. Ero convinto che fossero di enorme valore, così me ne riempii le tasche.
Camminai e camminai lungo il silenzioso sentiero verde-oro, e non vidi nessuno. Non avevo fame né sete, mi chiedevo soltanto dove sarebbe arrivato il sentiero. Era diritto e pianeggiante, qualche volta sul fondo di una gola, qualche volta sul bordo, così che potevo vedere giù le cime degli alberi e alcune case.
Valli e altipiani, valli e altipiani. E alla fine, in una di queste valli, arrivai al ponte.
Era fatto di mattoni rossi e lisci, un enorme arco sopra il sentiero. Alla base del ponte c'erano degli scalini di pietra intagliati nell'argine, e in cima un cancellino di legno.
Mi meravigliai di vedere un segno dell'esistenza dell'uomo sul sentiero, poiché ero stato sicuro fino ad allora che fosse una formazione naturale, come un vulcano. E, con un senso più di curiosità che d'altro (avevo, dopotutto, camminato per centinaia di miglia, o almeno così credevo, e potevo essere ovunque), salii i gradini e mi incamminai sul ponte.
Non ero da nessuna parte.
Il ponte era lastricato di fango, e da entrambi i lati c'era un prato. Quello dalla mia parte era un campo di grano, l'altro soltanto erba. Nel fango secco c'erano le impronte indurite di ruote di trattore. Mi incamminai attraverso il ponte per essere sicuro: nessuno scalpiccio, i miei piedi scalzi non facevano rumore.
Niente per miglia; solo campi, grano e alberi.
Raccolsi una spiga di grano e tolsi i chicchi, sbucciandoli fra le dita e masticandoli pensieroso. Mi resi conto di essere affamato e tornai verso i gradini e la ferrovia abbandonata. Era ora di tornare a casa. Non mi ero perso, tutto quello che dovevo fare era seguire il sentiero verso casa.
Sotto al ponte c'era un troll che mi aspettava.
"Sono un troll", disse. Fece una pausa e poi aggiunse, quasi come un ripensamento, "Fol rol de ol rol".
Era enorme, la testa sfiorava la cima dell'arco di mattoni. Era quasi trasparente, potevo vedere le pietre e gli alberi dietro di lui, offuscati ma non scomparsi. Era ogni mio incubo divenuto realtà. Aveva zanne enormi, forti mani pelose e artigli spuntati. I capelli erano lunghi come quelli delle bambole di mia sorella, e gli occhi gonfi. Era nudo, e il pene gli ciondolava dal cespuglio di peli fra le gambe.
"Ti ho sentito, Jack", sussurrò con una voce simile al vento, "Ti ho sentito camminare sul mio ponte. E adesso ti mangio la vita".
Avevo solo sette anni, ed era giorno, così ricordo di non essermi impaurito. E' facile per i bambini trovarsi a fronteggiare i personaggi delle fiabe, sono preparati a trattare con loro.
"Non mi mangiare", dissi al troll. Avevo addosso una maglietta a strisce marroni, e pantaloni marroni, i miei capelli erano castani, e mi stava per cadere un incisivo. Stavo imparando a fischiare tra i denti, ma non ne avevo abbastanza.
"Ti mangio la vita, Jack", ripeté il troll.
Lo guardai in faccia. "Mia sorella maggiore sta per arrivare dal sentiero", mentii, "ed è molto più buona di me. Mangia lei".
Il troll annusò l'aria e rise. "Sei solo", disse. "Non c'è nessun altro sul sentiero. Nessun altro". Si sdraiò e passò le dita su di me; sembravano farfalle che mi sfioravano il volto, come il tocco di un cieco. Poi le annusò, e scosse la testa enorme. "Tu non hai una sorella maggiore. Hai solo una sorellina più piccola, ed oggi è dalle sue amichette".
"Puoi capire tutto questo dall'odore?", chiesi meravigliato.
"I troll possono sentire l'odore degli arcobaleni. Possono sentire l'odore delle stelle", sussurrò tristemente. "I troll possono sentire l'odore dei sogni che facevi prima di nascere. Avvicinati, e ti mangerò la vita".
"Ho delle pietre preziose in tasca", dissi al troll. "Prendi quelle, non me. Guarda". Gli mostrai i gioielli di lava che avevo trovato prima.
"Scorie", disse. "Rifiuti lasciati dai treni a vapore. Non hanno nessun valore". Spalancò la bocca. Zanne appuntite. Fiato puzzolente di foglie marce e cose putride. "Ora ti mangio".
Diventava sempre più solido, sempre più reale, e il mondo dietro di lui diventava meno definito, spariva.
"Aspetta". Affondai i piedi nella terra umida sotto al ponte, spingendo con le dita, aggrappandomi saldamente al mondo reale. Lo guardai negli occhi. "Tu non vuoi mangiarmi la vita. Non ancora. Ho...ho solo sette anni. Non ho vissuto abbastanza. Ci sono libri che non ho ancora letto. Non sono mai stato su un aereo. Non riesco ancora a fischiare. Perchè non mi lasci andare? Quando sarò più grande, più forte, più di uno spuntino, tornerò da te".
Il troll mi osservò con i suoi occhi grandi come fanali.
Poi annuì.
"Quando tornerai", disse. E sorrise.
Mi voltai e tornai indietro lungo il viottolo diritto e silenzioso, dove un tempo c'erano stati i binari della ferrovia.
Dopo un po' cominciai a correre.
Corsi a perdifiato sul sentiero, nella luce verde, ansimando, finché non provai una fitta acuta al torace, dolore, e stringendomi il fianco andai a sbattere contro casa mia.
II.
I campi cominciarono a sparire mentre crescevo. Una dopo l'altra, fila su fila, spuntavano case e strade con nomi di fiori di campo e di artisti famosi. La nostra casa, una vecchia abitazione vittoriana malmessa, era stata venduta e demolita; nuovi palazzi coprivano il giardino.
Avevano costruito ovunque.
Una volta mi persi nel nuovo gruppo di abitazioni che copriva due prati dei quali un tempo avevo conosciuto ogni centimetro. Comunque non mi importava molto che i campi stessero scomparendo. La vecchia villa era stata acquistata da una multinazionale, e sui terreni circostanti c'erano altre case.
Passarono otto anni prima che ritornassi alla vecchia linea ferroviaria, e quando successe non ero solo. Avevo quindici anni, e nel frattempo avevo cambiato scuola due volte. Lei si chiamava Louise, ed era il mio primo amore.
Amavo i suoi occhi grigi, e i suoi bei capelli castano chiari, e il suo modo goffo di camminare (come quello di un cerbiatto che impara a camminare e sembra veramente stupido, ma di questo me ne pento): l'avevo vista masticare una gomma quando aveva tredici anni e mi aveva fatto sentire come un suicida sul ponte.
Il problema principale nell'innamorarsi di Louise era che eravamo amici, e che uscivamo entrambi con altre persone. Non le avrei mai detto che l'amavo, o soltanto che la desideravo. Eravamo come fratelli.
Ero stato a casa sua quel pomeriggio; sedevamo nella sua stanza ad ascoltare Rattus Norvegicus, il primo album degli Stranglers; eravamo all'inizio del punk e tutto sembrava eccitante, le possibilità, nella musica ed in tutto il resto, sembravano infinite. Alla fine arrivò l'ora di tornare a casa, e lei decise di accompagnarmi. Ci tenevamo per mano, innocentemente, da amici, percorrendo i dieci minuti di strada verso casa mia.
La luna splendeva, il mondo era visibile e privo di colori, e la notte era calda.
Arrivammo a casa mia. Vedemmo le luci all'interno e restammo per strada, a parlare del complesso che stavo formando. Non entrammo.
Poi decidemmo che avrei accompagnato lei a casa, così tornammo indietro.
Mi raccontò dei litigi con sua sorella minore, che le rubava trucchi e profumo. Louise sospettava che andasse a letto coi ragazzi. Lei era vergine. Lo eravamo entrambi.
Restammo in piedi per strada fuori da casa sua, sotto la luce gialla del lampione al sodio, e ci guardavamo l'un l'altra le labbra nere e le facce giallognole.
Ci sorridemmo.
Poi ricominciammo a camminare, scegliendo con cura strade vuote e silenziose.
In uno dei nuovi gruppi di case una stradina ci guidò verso il bosco, e la seguimmo.
Il sentiero era buio e diritto, ma le luci delle abitazioni lontane brillavano sul terreno come stelle, e la luna ci dava abbastanza luce per vedere. Una volta ci impaurimmo, quando di fronte a noi qualcosa sbuffò e grugnì. Ci stringemmo forte l'uno con l'altra. Era un tasso. Ridemmo e ci abbracciammo, e continuammo a camminare. Parlavamo di sciocchezze come i nostri sogni, i nostri desideri, le nostre idee, e per tutto il tempo avrei voluto baciarla e sentirla...
Finalmente ebbi l'occasione. C'era un vecchio ponte di mattoni sul sentiero e ci fermammo sotto. Mi strinsi a lei, la sua bocca aperta contro la mia.
D'un tratto diventò fredda e rigida, e smise di muoversi.
"Salve", disse il troll.
Mi staccai da Louise. Era buio sotto il ponte, ma la sagoma del troll riempiva l'oscurità.
"L'ho paralizzata", disse, "così possiamo parlare. Allora: mi sto per mangiare la tua esistenza".
Il cuore mi batteva forte, e potevo sentirmi tremare.
"No".
"Hai detto che saresti tornato, e l'hai fatto. Hai imparato a fischiare?"
"Sì".
"Bene. Non mi è mai riuscito". Sbuffò e annuì. "Sono contento. Sei cresciuto e maturato. Più cibo. Meglio per me".
Afferrai Louise, uno zombi rigido, e la spinsi in avanti.
"Non prendere me. Non voglio morire. Prendi lei. Scommetto che è molto più buona di me. Ed è più grande di due mesi. Perchè non prendi lei?"
Il troll rimase in silenzio.
Annusò Louise dalla testa ai piedi, sbuffando ai piedi, fra le gambe, sul seno e sui capelli. Poi guardò verso di me.
"E' innocente", disse. "Tu no. Non voglio lei, voglio te".
Indietreggiai da sotto il ponte e guardai in su, la notte e le stelle.
"Ma c'è ancora così tanto che non ho fatto", dissi, in parte a me stesso. "Voglio dire, non ho... Beh, non ho mai fatto l'amore. E non sono mai stato in America. Non ho...", mi bloccai. "Non ho fatto niente. Non ancora".
Il troll non rispose.
"Tornerò. Lo giuro".
"Tornare da me?", disse Louise. "Perchè? Dove vai?"
Mi voltai. Il troll era scomparso, e la ragazza che avevo creduto di amare era nell'oscurità, ai piedi del ponte.
"Andiamo a casa", le dissi. "Vieni".
Tornammo indietro senza dire niente.
Louise cominciò a uscire col batterista del mio complesso e, molto tempo dopo, si sposò con qualcun altro.
Ci incontrammo una volta, sul treno, e mi chiese se ricordavo quella notte. Le dissi di sì.
"Mi piacevi veramente quella notte, Jack", mi disse. "Pensavo che tu stessi per baciarmi, che mi volessi chiedere di uscire insieme. Avrei detto di sì. Se lo avessi fatto".
"Ma non l'ho fatto".
"No", disse. "Non l'hai fatto". Aveva i capelli troppo corti. Non le donavano.
Non l'ho più vista. Quella donna ordinata, col sorriso freddo, non era la ragazza che avevo amato, e parlare di lei mi fa stare male.
III.
Mi sono trasferito a Londra, poi qualche anno dopo sono tornato, ma la città che ho trovato non era quella che ricordavo: non c'erano prati, né fattorie, né viottoli sterrati; così traslocai il più rapidamente possibile in un piccolo villaggio dieci miglia lungo la strada.
Traslocai con la mia famiglia - ero sposato, allora, con un figlio - in una vecchia abitazione che una volta, molti anni prima, era stata una stazione ferroviaria. I binari erano stati tolti, e l'anziana coppia che viveva di fronte a noi li usava per recintare l'orto.
Stavo invecchiando. Un giorno trovai un capello grigio, un altro ascoltavo una registrazione della mia voce e mi resi conto che sembravo mio padre.
Lavoravo per una delle case discografiche più importanti, e andavo a Londra in treno quasi tutti i giorni. Alcune volte non tornavo a casa, così affittai un piccolo appartamento; è difficile fare il pendolare quando i gruppi di cui ti occupi non salgono sul palco fino a mezzanotte. Tutto questo voleva dire che era facile rimediare da scopare, se volevo, e lo feci.
Pensavo che Eleanora - così si chiamava mia moglie, credo che avrei dovuto dirlo prima - non sapesse delle altre donne, ma un giorno d'inverno tornai da un soggiorno di due settimane a New York e quando arrivai a casa la trovai fredda e vuota.
Mi aveva lasciato una lettera, non un biglietto. Quindici pagine, ben dattiloscritte, ed ogni parola era vera. Compreso il post-scriptum, che diceva: 'Tu non mi ami. Non mi hai mai amato'.
Indossai un cappotto pesante, uscii di casa e camminai, stordito e leggermente infreddolito.
Non c'era neve, ma un freddo gelido, e le foglie scricchiolavano sotto i piedi mentre camminavo. Gli alberi si stagliavano neri e scheletrici contro il grigio severo del cielo invernale.
Camminavo sul ciglio della strada. Le auto mi oltrepassavano, in viaggio per o da Londra. Inciampai in un ramo mezzo nascosto da un mucchio di foglie secche, strappandomi i pantaloni e ferendomi la gamba.
Raggiunsi il paese vicino. C'era un ruscello perpendicolare alla strada, e accanto ad esso un sentiero che non avevo mai visto prima, sul quale mi incamminai. Guardavo il ruscello, in parte ghiacciato, che gorgogliava e spruzzava e cantava. Il sentiero si inoltrava attraverso i campi, diritto ed erboso.
Trovai una pietra, mezza sepolta su un lato del viottolo. La presi e la ripulii dal fango. Era un blocco fuso di roba purpurea, con dei riflessi multicolori. La misi nella tasca del cappotto mentre camminavo, una presenza calda e rassicurante.
Il ruscello vagava attraverso i campi, io continuavo ad andare avanti in silenzio. Camminai per un'ora prima di vedere delle case, nuove, piccole e squadrate, sull'argine sopra di me.
E poi vidi il ponte, e riconobbi dov'ero; ero sul vecchio sentiero della ferrovia, e avrei dovuto discenderlo dall'altra parte.
C'erano dei graffiti sul fianco del ponte: 'vaffanculo', e 'Barry ama Susan', e l'onnipresente 'NF' del National Front.
Ero sotto il ponte, sotto l'arco di mattoni rossi, in piedi fra la carta dei gelati, i sacchetti di patatine ed un solo, triste preservativo usato, e guardavo il fumo del mio fiato nella fredda aria del pomeriggio. Il sangue mi si era seccato sui pantaloni. Le auto passavano sopra di me, in una di esse una radio andava a tutto volume.
"C'è nessuno?", sussurrai, sentendomi imbarazzato, stupido. "Ci sei?"
Nessuna risposta.
Il vento faceva rotolare i sacchetti di patatine e le foglie.
"Sono tornato. Ho detto che l'avrei fatto. E sono tornato. Ci sei?"
Silenzio.
Cominciai a piangere, stupidamente, in silenzio, singhiozzando sotto il ponte.
Una mano mi toccò il viso, e guardai su.
"Non credevo che saresti tornato", disse il troll.
Adesso era alto come me, ma per il resto non era cambiato. Il cesto di capelli lunghi era spettinato, con sopra delle foglie, e il suo sguardo saggio e solo.
Scrollai le spalle e mi asciugai il viso con gli angoli del cappotto. "Eccomi".
Tre ragazzi passarono sul ponte, gridando e correndo.
"Sono un troll", sussurrò con una voce flebile. "Fol rol de ol rol".
Stava tremando.
Avvicinai la mano e presi la sua zampa curva e con gli artigli. Gli sorrisi. "Va tutto bene", gli dissi. "Sul serio. Va tutto bene".
Il troll annuì.
Mi gettò a terra, fra le foglie le cartacce e il preservativo, e si abbassò su di me. Poi alzò la testa, aprì la bocca, e mangiò la mia esistenza con le sue zanne appuntite.
IV.
Quando ebbe finito il troll si alzò in piedi e si spazzolò con cura. Mise una mano nella tasca del cappotto e tirò fuori un blocco di pietra di scarto fuso e pieno di bolle.
Me lo gettò.
"Questo è tuo", disse.
Lo guardai: vestiva la mia vita comodamente, come se l'avesse indossata per anni. Presi il sasso e lo annusai. Potevo sentire l'odore del treno dal quale era caduto così tanto tempo prima. Lo strinsi con forza nella mia mano pelosa.
"Grazie", dissi.
"Buona fortuna", disse il troll.
"Sì. Beh... Anche a te".
Il troll sorrise col mio viso. Si voltò e cominciò a camminare lungo la strada dalla quale ero arrivato io, verso il villaggio, verso la casa vuota che avevo lasciato quella mattina, e mentre camminava fischiava.
Da allora io sto qui. Nascosto. In attesa. Parte del ponte.
Osservo nell'ombra quando la gente passa, a spasso col cane, parlando, o facendo le cose che la gente fa di solito. Qualche volta qualcuno si ferma sotto il mio ponte, a indugiare, a pisciare o a fare l'amore. E li guardo, ma non dico niente, e loro non si accorgono di me.
Fol rol de ol rol.
Voglio stare qui, nell'oscurità sotto l'arco. Posso sentirvi tutti, voi là fuori, camminare e camminare sul mio ponte.
Certo, posso sentirvi.
Ma non vengo fuori.
(The Troll's bridge. Neil Gaiman, Angels & Visitations, Dream Heaven Books, 1993)
nota: le illustrazioni sono di Mark Buckingham, e sono state pubblicate nel 1994 insieme al racconto originale sul numero 30 di Comic's World.
IL PONTE DEL TROLL
I.
Tolsero la maggior parte dei binari della ferrovia nei primi anni '60, quando avevo tre o quattro anni. Ridussero i servizi ferroviari a brandelli, così non rimase nessun altro posto dove andare tranne Londra, e la cittadina dove vivevo divenne il capolinea.
Il mio primo ricordo sicuro: a diciotto mesi, mia madre all'ospedale in attesa di mia sorella, e mia nonna che cammina con me su un ponte e mi solleva per guardare il treno al di sotto, che ansima e fuma come un drago nero di ferro.
Nei pochi anni seguenti sparirono le ultime locomotive, e con loro la rete di binari che univa villaggio a villaggio, città a città. Non sapevo che i treni stavano scomparendo. Quando avevo sette anni facevano già parte del passato.
Vivevamo in una vecchia casa ai confini della città. I campi di fronte erano disabitati ed incolti, e mi piaceva scalare la staccionata, sdraiarmi all'ombra dei giunchi e leggere, oppure, quando mi sentivo più avventuroso, esplorare il terreno attorno alla villa disabitata al di là dei campi. C'era uno stagnetto pieno di erbacce, con sopra un ponticello di legno.
Non avevo mai visto guardiani nelle mie scorrerie attraverso boschi e prati, ma non mi ero mai azzardato ad entrare nella villa. Questo voleva dire andare in cerca di guai, e poi ero sicuro che tutte le vecchie case disabitate fossero infestate dai fantasmi.
Non ero uno sciocco, credevo soltanto in tutte le cose oscure e pericolose: faceva parte delle mie convinzioni giovanili la certezza che la notte fosse popolata da fantasmi e da streghe affamate, svolazzanti e vestite di nero. Il contrario era altrettanto vero in modo rassicurante: la luce del giorno era la salvezza. Il giorno significava sempre salvezza.
Un rito: l'ultimo giorno di scuola, tornando a casa, mi toglievo scarpe e calzini e, tenendoli in mano, camminavo a piedi scalzi sul viottolo duro e sassoso. Durante le vacanze mi mettevo le scarpe soltanto con la forza, finché la scuola non ricominciava un'altra volta, a settembre.
A sette anni scopersi il sentiero attraverso il bosco: era un'estate calda e luminosa, e quel giorno mi ero allontanato molto da casa.
Ero in esplorazione. Ero andato oltre la villa e le sue finestre cieche, chiuse con le assi, attraverso campi e boschi sconosciuti. Mi ero calato da un'altura scoscesa, trovandomi su un sentiero che non conoscevo, ombroso e coperto dagli alberi. Attraverso le foglie penetrava una luce verde e oro, e pensai di essere arrivato nel paese delle fate. Un ruscello gocciolava su un lato del sentiero, brulicante di piccolissimi gamberetti trasparenti. Ne tirai un po' su con le mani e li guardai sussultare e girare sulle dita. Poi li ributtai dentro.
Vagavo sul sentiero. Era perfettamente diritto e coperto da erba bassa. Ogni tanto trovavo delle pietre veramente straordinarie, marroni e porpora e nere, fuse e piene di bolle. Mettendole in controluce potevo vedere tutti i colori dell'arcobaleno. Ero convinto che fossero di enorme valore, così me ne riempii le tasche.
Camminai e camminai lungo il silenzioso sentiero verde-oro, e non vidi nessuno. Non avevo fame né sete, mi chiedevo soltanto dove sarebbe arrivato il sentiero. Era diritto e pianeggiante, qualche volta sul fondo di una gola, qualche volta sul bordo, così che potevo vedere giù le cime degli alberi e alcune case.
Valli e altipiani, valli e altipiani. E alla fine, in una di queste valli, arrivai al ponte.
Era fatto di mattoni rossi e lisci, un enorme arco sopra il sentiero. Alla base del ponte c'erano degli scalini di pietra intagliati nell'argine, e in cima un cancellino di legno.
Mi meravigliai di vedere un segno dell'esistenza dell'uomo sul sentiero, poiché ero stato sicuro fino ad allora che fosse una formazione naturale, come un vulcano. E, con un senso più di curiosità che d'altro (avevo, dopotutto, camminato per centinaia di miglia, o almeno così credevo, e potevo essere ovunque), salii i gradini e mi incamminai sul ponte.
Non ero da nessuna parte.
Il ponte era lastricato di fango, e da entrambi i lati c'era un prato. Quello dalla mia parte era un campo di grano, l'altro soltanto erba. Nel fango secco c'erano le impronte indurite di ruote di trattore. Mi incamminai attraverso il ponte per essere sicuro: nessuno scalpiccio, i miei piedi scalzi non facevano rumore.
Niente per miglia; solo campi, grano e alberi.
Raccolsi una spiga di grano e tolsi i chicchi, sbucciandoli fra le dita e masticandoli pensieroso. Mi resi conto di essere affamato e tornai verso i gradini e la ferrovia abbandonata. Era ora di tornare a casa. Non mi ero perso, tutto quello che dovevo fare era seguire il sentiero verso casa.
Sotto al ponte c'era un troll che mi aspettava.
"Sono un troll", disse. Fece una pausa e poi aggiunse, quasi come un ripensamento, "Fol rol de ol rol".
Era enorme, la testa sfiorava la cima dell'arco di mattoni. Era quasi trasparente, potevo vedere le pietre e gli alberi dietro di lui, offuscati ma non scomparsi. Era ogni mio incubo divenuto realtà. Aveva zanne enormi, forti mani pelose e artigli spuntati. I capelli erano lunghi come quelli delle bambole di mia sorella, e gli occhi gonfi. Era nudo, e il pene gli ciondolava dal cespuglio di peli fra le gambe.
"Ti ho sentito, Jack", sussurrò con una voce simile al vento, "Ti ho sentito camminare sul mio ponte. E adesso ti mangio la vita".
Avevo solo sette anni, ed era giorno, così ricordo di non essermi impaurito. E' facile per i bambini trovarsi a fronteggiare i personaggi delle fiabe, sono preparati a trattare con loro.
"Non mi mangiare", dissi al troll. Avevo addosso una maglietta a strisce marroni, e pantaloni marroni, i miei capelli erano castani, e mi stava per cadere un incisivo. Stavo imparando a fischiare tra i denti, ma non ne avevo abbastanza.
"Ti mangio la vita, Jack", ripeté il troll.
Lo guardai in faccia. "Mia sorella maggiore sta per arrivare dal sentiero", mentii, "ed è molto più buona di me. Mangia lei".
Il troll annusò l'aria e rise. "Sei solo", disse. "Non c'è nessun altro sul sentiero. Nessun altro". Si sdraiò e passò le dita su di me; sembravano farfalle che mi sfioravano il volto, come il tocco di un cieco. Poi le annusò, e scosse la testa enorme. "Tu non hai una sorella maggiore. Hai solo una sorellina più piccola, ed oggi è dalle sue amichette".
"Puoi capire tutto questo dall'odore?", chiesi meravigliato.
"I troll possono sentire l'odore degli arcobaleni. Possono sentire l'odore delle stelle", sussurrò tristemente. "I troll possono sentire l'odore dei sogni che facevi prima di nascere. Avvicinati, e ti mangerò la vita".
"Ho delle pietre preziose in tasca", dissi al troll. "Prendi quelle, non me. Guarda". Gli mostrai i gioielli di lava che avevo trovato prima.
"Scorie", disse. "Rifiuti lasciati dai treni a vapore. Non hanno nessun valore". Spalancò la bocca. Zanne appuntite. Fiato puzzolente di foglie marce e cose putride. "Ora ti mangio".
Diventava sempre più solido, sempre più reale, e il mondo dietro di lui diventava meno definito, spariva.
"Aspetta". Affondai i piedi nella terra umida sotto al ponte, spingendo con le dita, aggrappandomi saldamente al mondo reale. Lo guardai negli occhi. "Tu non vuoi mangiarmi la vita. Non ancora. Ho...ho solo sette anni. Non ho vissuto abbastanza. Ci sono libri che non ho ancora letto. Non sono mai stato su un aereo. Non riesco ancora a fischiare. Perchè non mi lasci andare? Quando sarò più grande, più forte, più di uno spuntino, tornerò da te".
Il troll mi osservò con i suoi occhi grandi come fanali.
Poi annuì.
"Quando tornerai", disse. E sorrise.
Mi voltai e tornai indietro lungo il viottolo diritto e silenzioso, dove un tempo c'erano stati i binari della ferrovia.
Dopo un po' cominciai a correre.
Corsi a perdifiato sul sentiero, nella luce verde, ansimando, finché non provai una fitta acuta al torace, dolore, e stringendomi il fianco andai a sbattere contro casa mia.
II.
I campi cominciarono a sparire mentre crescevo. Una dopo l'altra, fila su fila, spuntavano case e strade con nomi di fiori di campo e di artisti famosi. La nostra casa, una vecchia abitazione vittoriana malmessa, era stata venduta e demolita; nuovi palazzi coprivano il giardino.
Avevano costruito ovunque.
Una volta mi persi nel nuovo gruppo di abitazioni che copriva due prati dei quali un tempo avevo conosciuto ogni centimetro. Comunque non mi importava molto che i campi stessero scomparendo. La vecchia villa era stata acquistata da una multinazionale, e sui terreni circostanti c'erano altre case.
Passarono otto anni prima che ritornassi alla vecchia linea ferroviaria, e quando successe non ero solo. Avevo quindici anni, e nel frattempo avevo cambiato scuola due volte. Lei si chiamava Louise, ed era il mio primo amore.
Amavo i suoi occhi grigi, e i suoi bei capelli castano chiari, e il suo modo goffo di camminare (come quello di un cerbiatto che impara a camminare e sembra veramente stupido, ma di questo me ne pento): l'avevo vista masticare una gomma quando aveva tredici anni e mi aveva fatto sentire come un suicida sul ponte.
Il problema principale nell'innamorarsi di Louise era che eravamo amici, e che uscivamo entrambi con altre persone. Non le avrei mai detto che l'amavo, o soltanto che la desideravo. Eravamo come fratelli.
Ero stato a casa sua quel pomeriggio; sedevamo nella sua stanza ad ascoltare Rattus Norvegicus, il primo album degli Stranglers; eravamo all'inizio del punk e tutto sembrava eccitante, le possibilità, nella musica ed in tutto il resto, sembravano infinite. Alla fine arrivò l'ora di tornare a casa, e lei decise di accompagnarmi. Ci tenevamo per mano, innocentemente, da amici, percorrendo i dieci minuti di strada verso casa mia.
La luna splendeva, il mondo era visibile e privo di colori, e la notte era calda.
Arrivammo a casa mia. Vedemmo le luci all'interno e restammo per strada, a parlare del complesso che stavo formando. Non entrammo.
Poi decidemmo che avrei accompagnato lei a casa, così tornammo indietro.
Mi raccontò dei litigi con sua sorella minore, che le rubava trucchi e profumo. Louise sospettava che andasse a letto coi ragazzi. Lei era vergine. Lo eravamo entrambi.
Restammo in piedi per strada fuori da casa sua, sotto la luce gialla del lampione al sodio, e ci guardavamo l'un l'altra le labbra nere e le facce giallognole.
Ci sorridemmo.
Poi ricominciammo a camminare, scegliendo con cura strade vuote e silenziose.
In uno dei nuovi gruppi di case una stradina ci guidò verso il bosco, e la seguimmo.
Il sentiero era buio e diritto, ma le luci delle abitazioni lontane brillavano sul terreno come stelle, e la luna ci dava abbastanza luce per vedere. Una volta ci impaurimmo, quando di fronte a noi qualcosa sbuffò e grugnì. Ci stringemmo forte l'uno con l'altra. Era un tasso. Ridemmo e ci abbracciammo, e continuammo a camminare. Parlavamo di sciocchezze come i nostri sogni, i nostri desideri, le nostre idee, e per tutto il tempo avrei voluto baciarla e sentirla...
Finalmente ebbi l'occasione. C'era un vecchio ponte di mattoni sul sentiero e ci fermammo sotto. Mi strinsi a lei, la sua bocca aperta contro la mia.
D'un tratto diventò fredda e rigida, e smise di muoversi.
"Salve", disse il troll.
Mi staccai da Louise. Era buio sotto il ponte, ma la sagoma del troll riempiva l'oscurità.
"L'ho paralizzata", disse, "così possiamo parlare. Allora: mi sto per mangiare la tua esistenza".
Il cuore mi batteva forte, e potevo sentirmi tremare.
"No".
"Hai detto che saresti tornato, e l'hai fatto. Hai imparato a fischiare?"
"Sì".
"Bene. Non mi è mai riuscito". Sbuffò e annuì. "Sono contento. Sei cresciuto e maturato. Più cibo. Meglio per me".
Afferrai Louise, uno zombi rigido, e la spinsi in avanti.
"Non prendere me. Non voglio morire. Prendi lei. Scommetto che è molto più buona di me. Ed è più grande di due mesi. Perchè non prendi lei?"
Il troll rimase in silenzio.
Annusò Louise dalla testa ai piedi, sbuffando ai piedi, fra le gambe, sul seno e sui capelli. Poi guardò verso di me.
"E' innocente", disse. "Tu no. Non voglio lei, voglio te".
Indietreggiai da sotto il ponte e guardai in su, la notte e le stelle.
"Ma c'è ancora così tanto che non ho fatto", dissi, in parte a me stesso. "Voglio dire, non ho... Beh, non ho mai fatto l'amore. E non sono mai stato in America. Non ho...", mi bloccai. "Non ho fatto niente. Non ancora".
Il troll non rispose.
"Tornerò. Lo giuro".
"Tornare da me?", disse Louise. "Perchè? Dove vai?"
Mi voltai. Il troll era scomparso, e la ragazza che avevo creduto di amare era nell'oscurità, ai piedi del ponte.
"Andiamo a casa", le dissi. "Vieni".
Tornammo indietro senza dire niente.
Louise cominciò a uscire col batterista del mio complesso e, molto tempo dopo, si sposò con qualcun altro.
Ci incontrammo una volta, sul treno, e mi chiese se ricordavo quella notte. Le dissi di sì.
"Mi piacevi veramente quella notte, Jack", mi disse. "Pensavo che tu stessi per baciarmi, che mi volessi chiedere di uscire insieme. Avrei detto di sì. Se lo avessi fatto".
"Ma non l'ho fatto".
"No", disse. "Non l'hai fatto". Aveva i capelli troppo corti. Non le donavano.
Non l'ho più vista. Quella donna ordinata, col sorriso freddo, non era la ragazza che avevo amato, e parlare di lei mi fa stare male.
III.
Mi sono trasferito a Londra, poi qualche anno dopo sono tornato, ma la città che ho trovato non era quella che ricordavo: non c'erano prati, né fattorie, né viottoli sterrati; così traslocai il più rapidamente possibile in un piccolo villaggio dieci miglia lungo la strada.
Traslocai con la mia famiglia - ero sposato, allora, con un figlio - in una vecchia abitazione che una volta, molti anni prima, era stata una stazione ferroviaria. I binari erano stati tolti, e l'anziana coppia che viveva di fronte a noi li usava per recintare l'orto.
Stavo invecchiando. Un giorno trovai un capello grigio, un altro ascoltavo una registrazione della mia voce e mi resi conto che sembravo mio padre.
Lavoravo per una delle case discografiche più importanti, e andavo a Londra in treno quasi tutti i giorni. Alcune volte non tornavo a casa, così affittai un piccolo appartamento; è difficile fare il pendolare quando i gruppi di cui ti occupi non salgono sul palco fino a mezzanotte. Tutto questo voleva dire che era facile rimediare da scopare, se volevo, e lo feci.
Pensavo che Eleanora - così si chiamava mia moglie, credo che avrei dovuto dirlo prima - non sapesse delle altre donne, ma un giorno d'inverno tornai da un soggiorno di due settimane a New York e quando arrivai a casa la trovai fredda e vuota.
Mi aveva lasciato una lettera, non un biglietto. Quindici pagine, ben dattiloscritte, ed ogni parola era vera. Compreso il post-scriptum, che diceva: 'Tu non mi ami. Non mi hai mai amato'.
Indossai un cappotto pesante, uscii di casa e camminai, stordito e leggermente infreddolito.
Non c'era neve, ma un freddo gelido, e le foglie scricchiolavano sotto i piedi mentre camminavo. Gli alberi si stagliavano neri e scheletrici contro il grigio severo del cielo invernale.
Camminavo sul ciglio della strada. Le auto mi oltrepassavano, in viaggio per o da Londra. Inciampai in un ramo mezzo nascosto da un mucchio di foglie secche, strappandomi i pantaloni e ferendomi la gamba.
Raggiunsi il paese vicino. C'era un ruscello perpendicolare alla strada, e accanto ad esso un sentiero che non avevo mai visto prima, sul quale mi incamminai. Guardavo il ruscello, in parte ghiacciato, che gorgogliava e spruzzava e cantava. Il sentiero si inoltrava attraverso i campi, diritto ed erboso.
Trovai una pietra, mezza sepolta su un lato del viottolo. La presi e la ripulii dal fango. Era un blocco fuso di roba purpurea, con dei riflessi multicolori. La misi nella tasca del cappotto mentre camminavo, una presenza calda e rassicurante.
Il ruscello vagava attraverso i campi, io continuavo ad andare avanti in silenzio. Camminai per un'ora prima di vedere delle case, nuove, piccole e squadrate, sull'argine sopra di me.
E poi vidi il ponte, e riconobbi dov'ero; ero sul vecchio sentiero della ferrovia, e avrei dovuto discenderlo dall'altra parte.
C'erano dei graffiti sul fianco del ponte: 'vaffanculo', e 'Barry ama Susan', e l'onnipresente 'NF' del National Front.
Ero sotto il ponte, sotto l'arco di mattoni rossi, in piedi fra la carta dei gelati, i sacchetti di patatine ed un solo, triste preservativo usato, e guardavo il fumo del mio fiato nella fredda aria del pomeriggio. Il sangue mi si era seccato sui pantaloni. Le auto passavano sopra di me, in una di esse una radio andava a tutto volume.
"C'è nessuno?", sussurrai, sentendomi imbarazzato, stupido. "Ci sei?"
Nessuna risposta.
Il vento faceva rotolare i sacchetti di patatine e le foglie.
"Sono tornato. Ho detto che l'avrei fatto. E sono tornato. Ci sei?"
Silenzio.
Cominciai a piangere, stupidamente, in silenzio, singhiozzando sotto il ponte.
Una mano mi toccò il viso, e guardai su.
"Non credevo che saresti tornato", disse il troll.
Adesso era alto come me, ma per il resto non era cambiato. Il cesto di capelli lunghi era spettinato, con sopra delle foglie, e il suo sguardo saggio e solo.
Scrollai le spalle e mi asciugai il viso con gli angoli del cappotto. "Eccomi".
Tre ragazzi passarono sul ponte, gridando e correndo.
"Sono un troll", sussurrò con una voce flebile. "Fol rol de ol rol".
Stava tremando.
Avvicinai la mano e presi la sua zampa curva e con gli artigli. Gli sorrisi. "Va tutto bene", gli dissi. "Sul serio. Va tutto bene".
Il troll annuì.
Mi gettò a terra, fra le foglie le cartacce e il preservativo, e si abbassò su di me. Poi alzò la testa, aprì la bocca, e mangiò la mia esistenza con le sue zanne appuntite.
IV.
Quando ebbe finito il troll si alzò in piedi e si spazzolò con cura. Mise una mano nella tasca del cappotto e tirò fuori un blocco di pietra di scarto fuso e pieno di bolle.
Me lo gettò.
"Questo è tuo", disse.
Lo guardai: vestiva la mia vita comodamente, come se l'avesse indossata per anni. Presi il sasso e lo annusai. Potevo sentire l'odore del treno dal quale era caduto così tanto tempo prima. Lo strinsi con forza nella mia mano pelosa.
"Grazie", dissi.
"Buona fortuna", disse il troll.
"Sì. Beh... Anche a te".
Il troll sorrise col mio viso. Si voltò e cominciò a camminare lungo la strada dalla quale ero arrivato io, verso il villaggio, verso la casa vuota che avevo lasciato quella mattina, e mentre camminava fischiava.
Da allora io sto qui. Nascosto. In attesa. Parte del ponte.
Osservo nell'ombra quando la gente passa, a spasso col cane, parlando, o facendo le cose che la gente fa di solito. Qualche volta qualcuno si ferma sotto il mio ponte, a indugiare, a pisciare o a fare l'amore. E li guardo, ma non dico niente, e loro non si accorgono di me.
Fol rol de ol rol.
Voglio stare qui, nell'oscurità sotto l'arco. Posso sentirvi tutti, voi là fuori, camminare e camminare sul mio ponte.
Certo, posso sentirvi.
Ma non vengo fuori.
(The Troll's bridge. Neil Gaiman, Angels & Visitations, Dream Heaven Books, 1993)
Etichette:
comics e dintorni,
curriculum,
private investigations
venerdì, novembre 12, 2010
Sia lodato Gesù Cristo?
Questa è la storia di padre Athanase Seromba, sacerdote cattolico ruandese.
«Ogni mattina all’alba – racconteranno dieci anni dopo i suoi parrocchiani al Corriere, a Nyange vicino Kibuye, sul magnifico lago Kivu in Ruanda - scendeva nella sua chiesa, preparava i paramenti, li indossava in attesa dei fedeli per la messa. Distribuiva una parola buona per ciascuno, portava conforto alla sua gente oberata dalla fame e dalla povertà, non si lasciava sfuggire un’occasione per aiutare i più indigenti."
Un vero sant'uomo, no? Si vede anche dalla faccia: bella piena, sorridente, paciosa.
Ma la gente cambia.
Kibungo, Ruanda, aprile 1994: Seromba, Curato nella parrocchia di Nyange, a Kibungo, assieme al borgomastro e all’ispettore di polizia prepara e mette in pratica un piano diabolico per sterminare la popolazione tutsi della zona. Per incoraggiare i tutsi in fuga disperata nelle campagne a ripararsi nella parrocchia, il ministro di Dio li attrae in chiesa usando tutta la sua autorità di religioso: promette protezione. Intere famiglie - certe che gli interahamwe rispetteranno il tempio, come già accaduto durante i massacri degli anni precedenti - accettano l’ospitalità offerta dall’abate. Ma una volta dentro, scoprono di essere intrappolati.
Nessuno dà loro acqua e cibo e padre Seromba respinge il denaro dei rifugiati per acquistare pane e frutta. Si rifiuta persino di celebrare la messa. Il prete ordina ai gendarmi di sparare su quanti, calandosi dalle finestre, cercano di rubare frutti dal bananeto alle spalle della parrocchia. I bambini, in preda a febbre e dissenteria, piangono in continuazione. Manca l’aria, 2 mila persone vivono nella disperazione in un luogo che può contenerne al massimo 1.500. Il 13 aprile matura il primo attacco: i miliziani estremisti circondano la chiesa, sparano raffiche di fucile sui civili inermi e tirano granate all’interno. Nella confusione, tra urla e schizzi di sangue, qualcuno riesce a scappare, ma viene catturato. I testimoni sentono il sacerdote ordinare ai soldati di chiudere tutte le porte e di giustiziare i trenta tutsi bloccati mentre erano in fuga. Il 16 aprile – sempre secondo l’accusa - Seromba e le autorità locali decidono per la soluzione finale. Chiamano gli autisti di due bulldozer della società italiana Astaldi, che sta costruendo la strada da Gitarama a Kibuye. L’idea è micidiale: seppellire i rifugiati sotto le macerie del luogo sacro. «Gli hutu sono tanti. Questa chiesa verrà ricostruita in tre giorni», sentenzia l’abate dando all’autista attonito l’ordine di procedere. Pochi minuti prima un suo collega, che si era rifiutato di agire, era stato ammazzato con un colpo alla testa. Con movimenti coordinati le due macchine demoliscono i muri della chiesa, mentre la popolazione del villaggio, armata di machete e bastoni, circonda l’area per attaccare chi cerca di fuggire. Dentro trovano la morte 2mila tutsi. Qualche colpo di machete pare lo abbia inferto pure lui.
Nella puzza di sangue e di fumo, il prete assassino si levò con autorità, e indicando i morti, i pezzi dei morti, ordinò di “levare di torno quella immondizia”.
Ma la sfiga vuole che la guerra civile la vincono proprio i tutsi, migliaia di assassini genocidi vengono arrestati, ma di padre Anthanase Seromba, nessuna traccia. Il prete assassino è scomparso, nessuno, neanche i suoi complici del “Comitato Speciale per la Sicurezza” di Nyange ne sanno più nulla. Viene emesso un mandato di arresto internazionale. E le polizie di tutto il modo lo cercano invano.
Dov'è finito padre Seromba?
Firenze, Italia, 1999: Da un paio d’anni era stato nominato, nella chiesa di S. Martino a Montughi , un nuovo vice-parroco. Il fatto che fosse straniero, e africano, fece effettivamente un po’ di scalpore, nel borghese quartiere cittadino, abituato a parroci – come dire – più tradizionali. Ma dopo le prime incertezze, fedeli e abitanti in genere della zona hanno imparato ad apprezzare l’efficienza e la cordialità di don Atanasio Sumba Bura, come dice di chiamarsi. Don Atanasio è arrivato nel 1997, con discrezione e con la benevola presentazione della diocesi fiorentina. Anzi, l’arcivescovado ha raccomandato la massima collaborazione e mobilitazione affinché don Atanasio potesse facilmente integrare nella comunità. Per due anni tutto va benissimo, aggraziate palazzine liberty e pesanti palazzoni anni ’50 avvolgono la vecchia chiesa in una normalissima vita di routine. Ma 1 milione di morti pesano sulla coscienza dell’umanità, e una associazione, African Rights, organizzazione simile a quelle ebraiche che non smisero mai di cercare i gerarchi nazisti, arriva fino a Firenze, fino a Montughi, fino a S. Martino, e, insospettita dal nome troppo simile a quello di un latitante irrintracciabile, scatta foto e prende informazioni, confronta dati e convoca testimoni. E riconosce Anthanase Seromba, lì, a S. Martino, a Montughi, a Firenze.
La notizia è una bomba, ma in Italia non esplode. È solo grazie ad un servizio accuratissimo del britannico Sunday Thimes che il caso fa il giro del mondo. Solo a quel punto (siamo nel novembre 1999) si mobilita la magistratura italiana. Don Anthanase nega, si infuria, convoca giornalisti, e rilascia dichiarazioni fiume, nelle quali accenna a molte cose: alla quasi omonimia; alla sua assenza dal Ruanda ai tempi dei massacri; alla sua ordinazione sacerdotale che sarebbe successiva al 1994, addirittura ad un complotto anglo-americano… insomma, ai cronisti racconta la sua verità. Ad una sola condizione: non scattare fotografie.
Immediatamente, parte la “schermatura” della curia fiorentina. Don “Sumba Bura” viene custodito, difeso, avvolto in un abbraccio protettivo impenetrabile. Arcivescovo, vescovi e parroci esprimono solidarietà e sicurezza di innocenza, e lanciano segnali a magistrati e tribunali: don Atanasio non si tocca. Per intanto, Atanasio viene trasferito in una parrocchia del circondario, a S. Mauro a Signa, sulle colline.
Più tranquillità, meno curiosi, probabilmente una parrocchia più plasmabile. Poi, quando le acque si calmano un poco, semplicemente, sparisce. Tutti immaginano che sia fuggito, si sia dato ad una difficile e drammatica latitanza. Ma non è così, in realtà. Passerà tempo, prima che si sappia dove si trova: a 25 metri dalla Cattedrale di Firenze, nella sede arcivescovile, che, essendo cardinalizia, è sotto sovranità vaticana, e quindi, diciamo così, extraterritoriale.
Anthanase Seromba, alias Atanasio Sumba Bura è stato nascosto dalle autorità ecclesiastiche in una sorta di impenetrabile ed inespugnabile fortino. Mentre l’interpol e le autorità del Tribunale lo ricercano, mentre i parenti degli uccisi lo reclamano, mentre le lettere ufficiali di African Right arrivano a Sua Eminenza il Cardinale e persino a Sua Santità il Papa, lettere che richiedono collaborazione per la giustizia in una vicenda di genocidio e orrore, la Chiesa fiorentina lo nasconde. Lo accudisce. Ne prepara, in un segreto lungo due anni, la difesa.
Poi, nell’agosto del 2001, ecco un comunicato: ''Don Athanase Seromba non è « fuggito », come hanno scritto alcuni giornali: è tuttora ospite dell'arcidiocesi di Firenze e ribadisce di essere pronto a rispondere di fronte alla legge per tutte le accuse che lo riguardano'', dichiara il portavoce della Curia fiorentina, Riccardo Bigi. Anthanase “non intende affatto sottrarsi a un eventuale processo”, anche se, precisa Bigi, ''A tutt'oggi, non ha ancora ricevuto nessun atto ufficiale di accusa, e non conosce quindi le imputazioni se non attraverso quello che e' stato pubblicato sui giornali''. Il comunicato si chiude con la denuncia della “disinformazione in Ruanda'', e con l’esternazione di “forti sospetti sulla imparzialità di African Rights.”
La Curia Fiorentina si dimentica però di “comunicare” come mai adesso, a due anni di distanza, il vice parroco ruandese risulti essere proprio Anthanase Seromba, e non Atanasio Sumba Bura, e si dimentica pure di dire come mai gli fossero state affidate due parrocchie sotto falso nome.
Due anni di attesa, due anni di occultamento dietro le finestre sotto le quali passano ogni giorno migliaia di turisti, dalle quali si vede il Battistero romanico e la cupola brunelleschiana. Due anni duranti i quali ONU e altre autorità avevano ricercato ovunque l’accusato. Una vera missione pastorale, questo tirarla per le lunghe. E non senza scopo. Infatti, nel 2001, in Italia succede qualcosa: Berlusconi torna al governo. Cosa c’entra? C’entra. Vediamo il susseguirsi dei fatti.
Il procuratore generale dei tribunali internazionali per i crimini nel Kosovo e in Ruanda è, appunto, Carla del Ponte, la super-giudice svizzera amica di Falcone e essenziale collaboratrice nelle indagini italiane su mafie e corruzione, indagini nelle quali Berlusconi (o qualche suo amico) è inciampato più volte.
Il 12 luglio 2001, rimettendo a punto le denuncie e i precedenti mandati di cattura, la Del Ponte emette un ordine di cattura internazionale per genocidio nei confronti di quattro ruandesi : l’ex ministro delle finanze, un musicista, e due preti cattolici. Uno di essi è Anthanase. In tutta europa scatta una operazione coordinata, e i tre latitanti che si trovavano rispettivamente in Belgio, Olanda e Svizzera sono consegnati alle autorità competenti. L’Italia, al contrario, non esegue. Nonostante una risoluzione specifica dell’ONU (la 955 : "Tutti gli Stati devono cooperare pienamente con il Tribunale internazionale… i Paesi membri delle Nazioni Unite sono obbligati a cooperare senza indugi con ogni richiesta di arresto e consegna di qualsiasi persona incriminata dalla Corte.”), il ministero della Giustizia fa sapere che le relative leggi di ratifica non sono mai state approvate, e quindi una simile estradizione non è possibile. Si risponde dunque ad una legittima richiesta con una confessione di inadempienza giuridica. L’ufficio della Procura Speciale comincia ad innervosirsi: "per il Tribunale dell'ex Jugoslavia ci avete messo due giorni ad adeguare la legge" sbotta l’inviato svizzero ad un funzionario del Ministero di via Arenula. Poi gli rammenta: "Guardi che basta un decreto legge, una cosa che si fa in poche ore". L’incredibile risposta è: "Sa, per un decreto ci vuole tempo, occorre vagliare, vedere. L'ex Jugoslavia è alle porte di Roma. Il Ruanda è migliaia di chilometri lontano" (queste frasi sono state riportate, virgolettate, da Diario, ndr).
Carla Del Ponte non regge l’affronto, e chiede un immediato incontro con Berlusconi. Non se ne farà di nulla. E l’Italia, per queste omissioni, viene ufficialmente biasimata alle Nazioni Unite.
Nel frattempo, dall’arcivescovato fiorentino, continuano a partire comunicati, nei quali si ribadisce che Seromba è “ospitato e protetto” in luogo segreto (l’arcivescovado stesso, come si saprà un mese dopo). Le autorità ecclesiastiche e il governo italiano sembrano andare avanti con una perfetta sincronia. L’avversità di Berlusconi nei confronti della Del Ponte e quella di Castelli nei confronti di qualsiasi trattato di estradizione vanno a braccetto con la voglia della curia di frenare, rallentare, nascondere, giustificare.
Intanto, dopo l’11 settembre, governo, chiesa ed istituzioni si sbracciano alla ricerca dell’aggettivo più enfatico da affiancare a “terrorismo” “fanatismo” “estremismo” “guerra” “vite spezzate”... Si proclamano principi su “giustizia” “pace” “democrazia”, nonché “severità” “intransigenza” e “immigrazione clandestina”. Nessuno però collabora con l’ONU per consegnare un sospetto genocida a chi di competenza.
Invece il Vaticano avvia trattative con il Tribunale e con le autorità ruandesi. Ottiene assicurazioni sui seguenti punti: il sacerdote non deve essere trasferito in Ruanda, né incarcerato con altri hutu incriminati nelle prigioni internazionali in Uganda, Burundi e Congo. Non deve essere condannato a morte, e deve avere un trattamento di riguardo.
Il 6 febbraio 2002 Seromba si consegna al International Criminal Tribunal for Rwanda (Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda, ICTR) ad Arusha (Tanzania), dove viene processato per genocidio e crimini contro l'umanità. Il 13 dicembre 2006 viene giudicato colpevole e condannato a 15 anni di carcere, ricevendo anche l'estradizione dall'Italia.
Nel marzo 2008, il processo di appello ha condannato Seromba all'ergastolo, affermando che ha partecipato attivamente ai massacri e non ha dimostrato alcun segno di pentimento.
Il 27 giugno 2009 è stato trasferito nella prigione di Akpro-Missérété a Port-Novo, in Benin.
Perché ho segnalato questa storia?
grazie ai Paguri per avermi fatto conoscere questo fulgido esempio di religiosità.
«Ogni mattina all’alba – racconteranno dieci anni dopo i suoi parrocchiani al Corriere, a Nyange vicino Kibuye, sul magnifico lago Kivu in Ruanda - scendeva nella sua chiesa, preparava i paramenti, li indossava in attesa dei fedeli per la messa. Distribuiva una parola buona per ciascuno, portava conforto alla sua gente oberata dalla fame e dalla povertà, non si lasciava sfuggire un’occasione per aiutare i più indigenti."
Un vero sant'uomo, no? Si vede anche dalla faccia: bella piena, sorridente, paciosa.
Ma la gente cambia.
Kibungo, Ruanda, aprile 1994: Seromba, Curato nella parrocchia di Nyange, a Kibungo, assieme al borgomastro e all’ispettore di polizia prepara e mette in pratica un piano diabolico per sterminare la popolazione tutsi della zona. Per incoraggiare i tutsi in fuga disperata nelle campagne a ripararsi nella parrocchia, il ministro di Dio li attrae in chiesa usando tutta la sua autorità di religioso: promette protezione. Intere famiglie - certe che gli interahamwe rispetteranno il tempio, come già accaduto durante i massacri degli anni precedenti - accettano l’ospitalità offerta dall’abate. Ma una volta dentro, scoprono di essere intrappolati.
Nessuno dà loro acqua e cibo e padre Seromba respinge il denaro dei rifugiati per acquistare pane e frutta. Si rifiuta persino di celebrare la messa. Il prete ordina ai gendarmi di sparare su quanti, calandosi dalle finestre, cercano di rubare frutti dal bananeto alle spalle della parrocchia. I bambini, in preda a febbre e dissenteria, piangono in continuazione. Manca l’aria, 2 mila persone vivono nella disperazione in un luogo che può contenerne al massimo 1.500. Il 13 aprile matura il primo attacco: i miliziani estremisti circondano la chiesa, sparano raffiche di fucile sui civili inermi e tirano granate all’interno. Nella confusione, tra urla e schizzi di sangue, qualcuno riesce a scappare, ma viene catturato. I testimoni sentono il sacerdote ordinare ai soldati di chiudere tutte le porte e di giustiziare i trenta tutsi bloccati mentre erano in fuga. Il 16 aprile – sempre secondo l’accusa - Seromba e le autorità locali decidono per la soluzione finale. Chiamano gli autisti di due bulldozer della società italiana Astaldi, che sta costruendo la strada da Gitarama a Kibuye. L’idea è micidiale: seppellire i rifugiati sotto le macerie del luogo sacro. «Gli hutu sono tanti. Questa chiesa verrà ricostruita in tre giorni», sentenzia l’abate dando all’autista attonito l’ordine di procedere. Pochi minuti prima un suo collega, che si era rifiutato di agire, era stato ammazzato con un colpo alla testa. Con movimenti coordinati le due macchine demoliscono i muri della chiesa, mentre la popolazione del villaggio, armata di machete e bastoni, circonda l’area per attaccare chi cerca di fuggire. Dentro trovano la morte 2mila tutsi. Qualche colpo di machete pare lo abbia inferto pure lui.
Nella puzza di sangue e di fumo, il prete assassino si levò con autorità, e indicando i morti, i pezzi dei morti, ordinò di “levare di torno quella immondizia”.
Ma la sfiga vuole che la guerra civile la vincono proprio i tutsi, migliaia di assassini genocidi vengono arrestati, ma di padre Anthanase Seromba, nessuna traccia. Il prete assassino è scomparso, nessuno, neanche i suoi complici del “Comitato Speciale per la Sicurezza” di Nyange ne sanno più nulla. Viene emesso un mandato di arresto internazionale. E le polizie di tutto il modo lo cercano invano.
Dov'è finito padre Seromba?
Firenze, Italia, 1999: Da un paio d’anni era stato nominato, nella chiesa di S. Martino a Montughi , un nuovo vice-parroco. Il fatto che fosse straniero, e africano, fece effettivamente un po’ di scalpore, nel borghese quartiere cittadino, abituato a parroci – come dire – più tradizionali. Ma dopo le prime incertezze, fedeli e abitanti in genere della zona hanno imparato ad apprezzare l’efficienza e la cordialità di don Atanasio Sumba Bura, come dice di chiamarsi. Don Atanasio è arrivato nel 1997, con discrezione e con la benevola presentazione della diocesi fiorentina. Anzi, l’arcivescovado ha raccomandato la massima collaborazione e mobilitazione affinché don Atanasio potesse facilmente integrare nella comunità. Per due anni tutto va benissimo, aggraziate palazzine liberty e pesanti palazzoni anni ’50 avvolgono la vecchia chiesa in una normalissima vita di routine. Ma 1 milione di morti pesano sulla coscienza dell’umanità, e una associazione, African Rights, organizzazione simile a quelle ebraiche che non smisero mai di cercare i gerarchi nazisti, arriva fino a Firenze, fino a Montughi, fino a S. Martino, e, insospettita dal nome troppo simile a quello di un latitante irrintracciabile, scatta foto e prende informazioni, confronta dati e convoca testimoni. E riconosce Anthanase Seromba, lì, a S. Martino, a Montughi, a Firenze.
La notizia è una bomba, ma in Italia non esplode. È solo grazie ad un servizio accuratissimo del britannico Sunday Thimes che il caso fa il giro del mondo. Solo a quel punto (siamo nel novembre 1999) si mobilita la magistratura italiana. Don Anthanase nega, si infuria, convoca giornalisti, e rilascia dichiarazioni fiume, nelle quali accenna a molte cose: alla quasi omonimia; alla sua assenza dal Ruanda ai tempi dei massacri; alla sua ordinazione sacerdotale che sarebbe successiva al 1994, addirittura ad un complotto anglo-americano… insomma, ai cronisti racconta la sua verità. Ad una sola condizione: non scattare fotografie.
Immediatamente, parte la “schermatura” della curia fiorentina. Don “Sumba Bura” viene custodito, difeso, avvolto in un abbraccio protettivo impenetrabile. Arcivescovo, vescovi e parroci esprimono solidarietà e sicurezza di innocenza, e lanciano segnali a magistrati e tribunali: don Atanasio non si tocca. Per intanto, Atanasio viene trasferito in una parrocchia del circondario, a S. Mauro a Signa, sulle colline.
Più tranquillità, meno curiosi, probabilmente una parrocchia più plasmabile. Poi, quando le acque si calmano un poco, semplicemente, sparisce. Tutti immaginano che sia fuggito, si sia dato ad una difficile e drammatica latitanza. Ma non è così, in realtà. Passerà tempo, prima che si sappia dove si trova: a 25 metri dalla Cattedrale di Firenze, nella sede arcivescovile, che, essendo cardinalizia, è sotto sovranità vaticana, e quindi, diciamo così, extraterritoriale.
Anthanase Seromba, alias Atanasio Sumba Bura è stato nascosto dalle autorità ecclesiastiche in una sorta di impenetrabile ed inespugnabile fortino. Mentre l’interpol e le autorità del Tribunale lo ricercano, mentre i parenti degli uccisi lo reclamano, mentre le lettere ufficiali di African Right arrivano a Sua Eminenza il Cardinale e persino a Sua Santità il Papa, lettere che richiedono collaborazione per la giustizia in una vicenda di genocidio e orrore, la Chiesa fiorentina lo nasconde. Lo accudisce. Ne prepara, in un segreto lungo due anni, la difesa.
Poi, nell’agosto del 2001, ecco un comunicato: ''Don Athanase Seromba non è « fuggito », come hanno scritto alcuni giornali: è tuttora ospite dell'arcidiocesi di Firenze e ribadisce di essere pronto a rispondere di fronte alla legge per tutte le accuse che lo riguardano'', dichiara il portavoce della Curia fiorentina, Riccardo Bigi. Anthanase “non intende affatto sottrarsi a un eventuale processo”, anche se, precisa Bigi, ''A tutt'oggi, non ha ancora ricevuto nessun atto ufficiale di accusa, e non conosce quindi le imputazioni se non attraverso quello che e' stato pubblicato sui giornali''. Il comunicato si chiude con la denuncia della “disinformazione in Ruanda'', e con l’esternazione di “forti sospetti sulla imparzialità di African Rights.”
La Curia Fiorentina si dimentica però di “comunicare” come mai adesso, a due anni di distanza, il vice parroco ruandese risulti essere proprio Anthanase Seromba, e non Atanasio Sumba Bura, e si dimentica pure di dire come mai gli fossero state affidate due parrocchie sotto falso nome.
Due anni di attesa, due anni di occultamento dietro le finestre sotto le quali passano ogni giorno migliaia di turisti, dalle quali si vede il Battistero romanico e la cupola brunelleschiana. Due anni duranti i quali ONU e altre autorità avevano ricercato ovunque l’accusato. Una vera missione pastorale, questo tirarla per le lunghe. E non senza scopo. Infatti, nel 2001, in Italia succede qualcosa: Berlusconi torna al governo. Cosa c’entra? C’entra. Vediamo il susseguirsi dei fatti.
Il procuratore generale dei tribunali internazionali per i crimini nel Kosovo e in Ruanda è, appunto, Carla del Ponte, la super-giudice svizzera amica di Falcone e essenziale collaboratrice nelle indagini italiane su mafie e corruzione, indagini nelle quali Berlusconi (o qualche suo amico) è inciampato più volte.
Il 12 luglio 2001, rimettendo a punto le denuncie e i precedenti mandati di cattura, la Del Ponte emette un ordine di cattura internazionale per genocidio nei confronti di quattro ruandesi : l’ex ministro delle finanze, un musicista, e due preti cattolici. Uno di essi è Anthanase. In tutta europa scatta una operazione coordinata, e i tre latitanti che si trovavano rispettivamente in Belgio, Olanda e Svizzera sono consegnati alle autorità competenti. L’Italia, al contrario, non esegue. Nonostante una risoluzione specifica dell’ONU (la 955 : "Tutti gli Stati devono cooperare pienamente con il Tribunale internazionale… i Paesi membri delle Nazioni Unite sono obbligati a cooperare senza indugi con ogni richiesta di arresto e consegna di qualsiasi persona incriminata dalla Corte.”), il ministero della Giustizia fa sapere che le relative leggi di ratifica non sono mai state approvate, e quindi una simile estradizione non è possibile. Si risponde dunque ad una legittima richiesta con una confessione di inadempienza giuridica. L’ufficio della Procura Speciale comincia ad innervosirsi: "per il Tribunale dell'ex Jugoslavia ci avete messo due giorni ad adeguare la legge" sbotta l’inviato svizzero ad un funzionario del Ministero di via Arenula. Poi gli rammenta: "Guardi che basta un decreto legge, una cosa che si fa in poche ore". L’incredibile risposta è: "Sa, per un decreto ci vuole tempo, occorre vagliare, vedere. L'ex Jugoslavia è alle porte di Roma. Il Ruanda è migliaia di chilometri lontano" (queste frasi sono state riportate, virgolettate, da Diario, ndr).
Carla Del Ponte non regge l’affronto, e chiede un immediato incontro con Berlusconi. Non se ne farà di nulla. E l’Italia, per queste omissioni, viene ufficialmente biasimata alle Nazioni Unite.
Nel frattempo, dall’arcivescovato fiorentino, continuano a partire comunicati, nei quali si ribadisce che Seromba è “ospitato e protetto” in luogo segreto (l’arcivescovado stesso, come si saprà un mese dopo). Le autorità ecclesiastiche e il governo italiano sembrano andare avanti con una perfetta sincronia. L’avversità di Berlusconi nei confronti della Del Ponte e quella di Castelli nei confronti di qualsiasi trattato di estradizione vanno a braccetto con la voglia della curia di frenare, rallentare, nascondere, giustificare.
Intanto, dopo l’11 settembre, governo, chiesa ed istituzioni si sbracciano alla ricerca dell’aggettivo più enfatico da affiancare a “terrorismo” “fanatismo” “estremismo” “guerra” “vite spezzate”... Si proclamano principi su “giustizia” “pace” “democrazia”, nonché “severità” “intransigenza” e “immigrazione clandestina”. Nessuno però collabora con l’ONU per consegnare un sospetto genocida a chi di competenza.
Invece il Vaticano avvia trattative con il Tribunale e con le autorità ruandesi. Ottiene assicurazioni sui seguenti punti: il sacerdote non deve essere trasferito in Ruanda, né incarcerato con altri hutu incriminati nelle prigioni internazionali in Uganda, Burundi e Congo. Non deve essere condannato a morte, e deve avere un trattamento di riguardo.
Il 6 febbraio 2002 Seromba si consegna al International Criminal Tribunal for Rwanda (Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda, ICTR) ad Arusha (Tanzania), dove viene processato per genocidio e crimini contro l'umanità. Il 13 dicembre 2006 viene giudicato colpevole e condannato a 15 anni di carcere, ricevendo anche l'estradizione dall'Italia.
Nel marzo 2008, il processo di appello ha condannato Seromba all'ergastolo, affermando che ha partecipato attivamente ai massacri e non ha dimostrato alcun segno di pentimento.
Il 27 giugno 2009 è stato trasferito nella prigione di Akpro-Missérété a Port-Novo, in Benin.
Perché ho segnalato questa storia?
grazie ai Paguri per avermi fatto conoscere questo fulgido esempio di religiosità.
giovedì, novembre 11, 2010
Degli stupidi il toscano ha ribrezzo
ogni tanto, quando leggo o discuto con un po' di gente, mi vien fuori di citare il buon Curzio...
Il sospetto e l'inimicizia degli altri popoli, italiani e stranieri, ci fanno senza dubbio onore, essendo segni manifesti di rispetto e di stima.
In una stagione, com'è questa, d'ipocrisia, di viltà, e di compromessi d'ogni specie, fa sempre onore, a un uomo o a un popolo, esser temuto e avversato.
Vi sono uomini e popoli che soffrono di non essere amati: son quelli che han natura femminile.
Ma una nazione forte, spregiudicata, ardita, qual è la nazione toscana, a cui nessuno ha mai voluto bene, e che da secoli è abituata al sospetto e all'invidia altrui, perché mai dovrebbe soffrirne? Tutto siamo, noi toscani, fuorché femmine.
E che gli altri non ci vogliano bene, diffidino di noi, abbiano gelosia e timore della nostra particolare intelligenza, del nostro modo di guardare il prossimo e riderne a bocca fredda (quando un altro, che non fosse toscano, ne piangerebbe), che tutti, insomma, siano sospettosi di quel che essi impropriamente chiamano il nostro cinismo, la nostra crudeltà, la nostra garbata arroganza, ci fa quasi piacere.
Anzi, per essere onesto, dirò che ne godiamo.
Ma quello di cui più godiamo è vedere come tutti, italiani e stranieri, si meraviglino del disprezzo col quale noi li ripaghiamo del sospetto e dell'inimicizia loro. Che non è un disprezzo nato a caso, né da ripicco o vanità; né da orgoglio: ma un disprezzo sentito, e risentito, allegro, ragionatissimo, e antico.
E basta guardare un toscano come cammina, per capire di che stoffa sia fatto il suo disprezzo.
Guardate come un toscano cammina. Cammina a testa ritta, col petto in fuori e le mele strette. Tira diritto guardando fisso davanti a sé, con quel risolino sulle labbra che par dipinto, tanto par vero.
Si direbbe che non guarda e non vede: come uomo che sta ai fatti suoi, e di quelli degli altri non s'impiccia. Eppure, così camminando a testa ritta, gli occhi fissi davanti a sé, guarda e vede tutto, né mai gli capita che guardi senza vedere, perché il toscano vede anche senza guardare. Non sorride per grata, amabile disposizione dell'animo, né per orgogliosa compassione: ma per malizia, e dirò, anzi, per spregio.
L'elemento fondamentale del suo carattere è, infatti, l'esser spregioso: il che nasce dal suo profondo disprezzo per le cose e i fatti degli uomini, s'intende degli altri uomini.
In se stesso il toscano ha fiducia, pur senza orgoglio, ma negli uomini, nella pianta uomo, no. In fondo, credo che disprezzi il genere umano, tutti gli esseri umani, maschi e femmine. E non per la loro cattiveria (al toscano non fan paura i cattivi), ma per la loro stupidità.
Degli stupidi il toscano ha ribrezzo, perché non si sa mai che cosa possa venir fuori da uno stupido.
Guarda, dico, come il toscano cammina: e ti avvedrai che cammina come se stesse sempre sulle sue, come uomo che sa, per antica esperienza, che la cosa più aborrita al mondo è l'intelligenza, e la più insidiata.
Che tutti gli italiani siano intelligenti, ma che i toscani siano di gran lunga più intelligenti di tutti gli altri italiani, è cosa che tutti sanno, ma che pochi vogliono ammettere.
Non so se per gelosia, o per ignoranza di quel che sia veramente l’intelligenza: la quale non è furbizia, come si crede comunemente in Italia, ma un modo di abbracciar con la mente le cose, di comprenderle, cioè, e di penetrarle, mentre la furbizia è soltanto quello che il battere delle ciglia è in confronto con lo sguardo. E chi negherà che noi toscani sappiamo entrar con gli occhi della mente in fondo alle cose, e guardar dentro? che siamo come quegli insetti che prendono il polline dai fiori maschi e lo portano ai fiori femmine? che noi portiamo l’intelligenza, come un polline, alle pietre, e ne facciamo nascere chiese e palazzi, torri maschi e piazze femmine? Chi negherà che l’intelligenza, in Toscana, ci sta di casa, e che anche gli scemi, che in casa d’altri son soltanto scemi, da noi sono intelligenti?
Quando i Toscani ti guardano, ti stanno giudicando. Non devono scoprire niente, perché sanno che sei fatto male, ma vogliono capire “di che sei fatto”.
[...]
I Toscani sono civili, non gentili. “A dirla tra noi, la gentilezza sta di casa soltanto a Siena. Altrove, nel resto della Toscana, è civiltà di modi, e non di voce, di piglio, di tono, di parole. Civiltà, non gentilezza: che son due cose diverse”.
[...]
Non salutano mai per primi nessuno, nemmeno in Paradiso. Dio è già preparato, è lui che viene a salutarti per primo, quand'è il momento, se sei toscano. Credono che non ci sia nulla di sacro, a questo mondo, fuorché l'umano, e che ogni anima sia uguale a un'altra. Basta tenerla asciutta. I Toscani fanno tutto a misura d'uomo, anche i miracoli dei santi. Non perdono mai di vista la “misura del mondo”, questo è il loro segreto.
p.s.: ovviamente Doctor Who non è di Galifrey, ma di Pontassieve.
Il sospetto e l'inimicizia degli altri popoli, italiani e stranieri, ci fanno senza dubbio onore, essendo segni manifesti di rispetto e di stima.
In una stagione, com'è questa, d'ipocrisia, di viltà, e di compromessi d'ogni specie, fa sempre onore, a un uomo o a un popolo, esser temuto e avversato.
Vi sono uomini e popoli che soffrono di non essere amati: son quelli che han natura femminile.
Ma una nazione forte, spregiudicata, ardita, qual è la nazione toscana, a cui nessuno ha mai voluto bene, e che da secoli è abituata al sospetto e all'invidia altrui, perché mai dovrebbe soffrirne? Tutto siamo, noi toscani, fuorché femmine.
E che gli altri non ci vogliano bene, diffidino di noi, abbiano gelosia e timore della nostra particolare intelligenza, del nostro modo di guardare il prossimo e riderne a bocca fredda (quando un altro, che non fosse toscano, ne piangerebbe), che tutti, insomma, siano sospettosi di quel che essi impropriamente chiamano il nostro cinismo, la nostra crudeltà, la nostra garbata arroganza, ci fa quasi piacere.
Anzi, per essere onesto, dirò che ne godiamo.
Ma quello di cui più godiamo è vedere come tutti, italiani e stranieri, si meraviglino del disprezzo col quale noi li ripaghiamo del sospetto e dell'inimicizia loro. Che non è un disprezzo nato a caso, né da ripicco o vanità; né da orgoglio: ma un disprezzo sentito, e risentito, allegro, ragionatissimo, e antico.
E basta guardare un toscano come cammina, per capire di che stoffa sia fatto il suo disprezzo.
Guardate come un toscano cammina. Cammina a testa ritta, col petto in fuori e le mele strette. Tira diritto guardando fisso davanti a sé, con quel risolino sulle labbra che par dipinto, tanto par vero.
Si direbbe che non guarda e non vede: come uomo che sta ai fatti suoi, e di quelli degli altri non s'impiccia. Eppure, così camminando a testa ritta, gli occhi fissi davanti a sé, guarda e vede tutto, né mai gli capita che guardi senza vedere, perché il toscano vede anche senza guardare. Non sorride per grata, amabile disposizione dell'animo, né per orgogliosa compassione: ma per malizia, e dirò, anzi, per spregio.
L'elemento fondamentale del suo carattere è, infatti, l'esser spregioso: il che nasce dal suo profondo disprezzo per le cose e i fatti degli uomini, s'intende degli altri uomini.
In se stesso il toscano ha fiducia, pur senza orgoglio, ma negli uomini, nella pianta uomo, no. In fondo, credo che disprezzi il genere umano, tutti gli esseri umani, maschi e femmine. E non per la loro cattiveria (al toscano non fan paura i cattivi), ma per la loro stupidità.
Degli stupidi il toscano ha ribrezzo, perché non si sa mai che cosa possa venir fuori da uno stupido.
Guarda, dico, come il toscano cammina: e ti avvedrai che cammina come se stesse sempre sulle sue, come uomo che sa, per antica esperienza, che la cosa più aborrita al mondo è l'intelligenza, e la più insidiata.
Che tutti gli italiani siano intelligenti, ma che i toscani siano di gran lunga più intelligenti di tutti gli altri italiani, è cosa che tutti sanno, ma che pochi vogliono ammettere.
Non so se per gelosia, o per ignoranza di quel che sia veramente l’intelligenza: la quale non è furbizia, come si crede comunemente in Italia, ma un modo di abbracciar con la mente le cose, di comprenderle, cioè, e di penetrarle, mentre la furbizia è soltanto quello che il battere delle ciglia è in confronto con lo sguardo. E chi negherà che noi toscani sappiamo entrar con gli occhi della mente in fondo alle cose, e guardar dentro? che siamo come quegli insetti che prendono il polline dai fiori maschi e lo portano ai fiori femmine? che noi portiamo l’intelligenza, come un polline, alle pietre, e ne facciamo nascere chiese e palazzi, torri maschi e piazze femmine? Chi negherà che l’intelligenza, in Toscana, ci sta di casa, e che anche gli scemi, che in casa d’altri son soltanto scemi, da noi sono intelligenti?
Quando i Toscani ti guardano, ti stanno giudicando. Non devono scoprire niente, perché sanno che sei fatto male, ma vogliono capire “di che sei fatto”.
[...]
I Toscani sono civili, non gentili. “A dirla tra noi, la gentilezza sta di casa soltanto a Siena. Altrove, nel resto della Toscana, è civiltà di modi, e non di voce, di piglio, di tono, di parole. Civiltà, non gentilezza: che son due cose diverse”.
[...]
Non salutano mai per primi nessuno, nemmeno in Paradiso. Dio è già preparato, è lui che viene a salutarti per primo, quand'è il momento, se sei toscano. Credono che non ci sia nulla di sacro, a questo mondo, fuorché l'umano, e che ogni anima sia uguale a un'altra. Basta tenerla asciutta. I Toscani fanno tutto a misura d'uomo, anche i miracoli dei santi. Non perdono mai di vista la “misura del mondo”, questo è il loro segreto.
p.s.: ovviamente Doctor Who non è di Galifrey, ma di Pontassieve.
mercoledì, novembre 10, 2010
Gente di merda
Mentre, insieme a amalgeddon, cambiavo nome e template di questo blog dopo averlo lasciato a fare muffa per un anno e mezzo, mi è capitato di andare sui commenti del post "La mia venticinquesima ora".
Avevo dimenticato questi due simpatici rappresentanti dell'italica stirpe che si meriterebbero una fagottata di merda a cena:
Io sono felicissimo di aver vinto il concorso al collegio militare!!!
E per questo motivo, me ne frego altamente di teste di cazzo come voi...e pertanto andatevene tutti affanKulo...stronzi!...non vi meritate neanche di sniffare la mia sacra cappella in ginocchio!!!!
Giulio L. (Milano)
Io adesempio, ho iniziato a mandare affanculo la gente bastarda, da quando (dopo aver lavorato per anni nel settore e senza titolo)un bel giorno mi sono cuccato la laurea in odontoiatria (a Torvergata) a colpi di raccomandazioni e qualcos'altro...(grazie a mia moglie Angela e le sue conoscenze politiche)
Se mi domandate dove sta' Parigi neanche lo so'...
Comunque se qualche pezzo di merda vuol farsi rimettere un paio di denti a prezzi modici, potrete trovarmi ad Isola del Liri (Frosinone)...
Il mio nome e' Giorgio L.
Uno di Milano e uno di Frosinone.
Come mai non mi stupisco?
Iscriviti a:
Post (Atom)